Lo scorso 18 ottobre, ricorreva il terzo anniversario delle proteste sociali che hanno travolto il Cile.
L’anniversario ha trovato il Paese nel pieno di un dibattito sulle cause e le conseguenze del movimento del 2019, sui risultati e sulle perdite, sui cambiamenti che sono stati fatti e su tutto il lavoro che c’è ancora da fare. Nell’ottobre di tre anni fa, il Cile era un Paese diverso – o forse poi non così tanto. Il governo di destra di Sebastián Piñera aveva deciso di aumentare i prezzi dei biglietti della metropolitana, incontrando il disappunto dei cittadini.
Ciò che non si aspettava è quello che è venuto dopo: gli studenti di Santiago del Cile scendevano in piazza contro l’aumento, portando nei giorni seguenti a una escalation di eventi. Scontri nelle piazze e barricate nelle strade, con morti e centinaia di feriti, duravano per mesi.
I cileni, a partire dal biglietto della metropolitana, arrivavano a rompere il tetto di cristallo, chiedendo il riconoscimento di uno Stato di diritto egualitario, che consentisse a tutte e a tutti condizioni di vita dignitose, con la riduzione delle disuguaglianze sociali ed economiche.
Il mezzo che, tre anni fa, era stato ritenuto il migliore per giungere ai risultati desiderati era la stesura di una nuova Carta costituzionale. In Cile, infatti, la Costituzione risale agli anni della dittatura di Pinochet: ne incarna le idee neoliberali ed elitarie.
Nonostante le modifiche apportate alla Carta, dal 1990 a oggi, il quadro normativo, entro cui i governi democratici hanno lavorato, è rimasto quello ideato dalla dittatura. Il popolo ha ritenuto che fosse ora di rompere con il passato antidemocratico, e lo ha fatto con uno strumento della democrazia diretta: nel referendum dell’ottobre 2020, più dell’80% dei votanti si è espresso per una nuova Costituzione.
Dal 2020 a oggi il Cile ha eletto un nuovo presidente, Gabriel Boric, giovanissimo rappresentante di quei movimenti studenteschi che avevano percorso le vie di Santiago; è stata stesa una nuova Costituzione, ritenuta però troppo radicale da una parte del Paese, e da un’altra non abbastanza, cosicché essa è stata bocciata.
Le frange più conservatrici hanno respinto la proposta di Costituzione perché vi si parlava di aborto, di riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni– e perché, quindi, si sarebbe trattato di una bozza scritta da porzioni minoritarie del Paese.
Anche a sinistra, però, non sono mancate le critiche, non solo sui contenuti ma sulle modalità: la Convenzione costituente ha lavorato sulla proposta a porte chiuse, in un modo che non veniva incontro alle richieste presentate nelle strade.
E il voto di sinistra per il rechazo (rifiuto) è stato anche un voto contro il governo di Boric: alcune frange delle associazioni indigene non hanno appoggiato il disegno costituzionale, prendendo le distanze da quel governo che è intervenuto militarmente nell’area in cui è vivo il conflitto tra il popolo Mapuche e le multinazionali.
A queste minoranze, si sono aggiunti alcuni ambienti anarchici, che hanno preso parte alla campagna per l’astensione nel referendum, giudicando il processo costituente di natura elitaria. Bisogna considerare, infatti, che la risposta del governo è stata una risposta “dei pochi”, mentre le prime assemblee e i primi consigli, che hanno costruito le rivendicazioni, erano sorti dietro le barricate. Dietro quelle barricate, in quelle assemblee, gli anarchici avevano ricoperto un ruolo preciso. Il cambiamento della Costituzione era sì una richiesta dei movimenti cileni, ma né l’unica né la principale; l’esigenza era quella di uno Stato garante dei diritti sociali. Lo spostamento dell’intera attenzione sulla Carta costituzionale ha creato così una frattura con queste parti del movimento, e ha contribuito alla bocciatura della bozza.
Pochi giorni fa, centinaia di cileni, principalmente studenti, hanno protestato a Santiago, erigendo barricate, per celebrare i tre anni da quella rivolta che, secondo loro, non ha ancora prodotto il cambiamento sperato. “Quelli di noi che hanno combattuto sono qui” – ha dichiarato, all’agenzia Reuters, Marco Valdebenito, 49 anni, il cui fratello è morto durante le proteste di tre anni fa. A queste nuove manifestazioni il presidente ha risposto: “La rivolta del 2019 è stata un’espressione del dolore e delle fratture nella nostra società che la politica, di cui facciamo parte, non è riuscita a interpretare. Non permetteremo che tutto sia stato vano, non possiamo essere gli stessi dopo questa esperienza, non possiamo fare gli stessi errori”.
Il percorso del Paese, dal 2019 a oggi, sembrava tutto una luna di miele per la sinistra cilena e latinoamericana. Ma lungo la strada qualcosa è andato storto: nel 2022 la luna di miele è finita, e il processo si è concluso con una Convenzione costituzionale delegittimata, con una nuova Carta impopolare e rifiutata, e un Gabriel Boric con un’immagine in peggioramento giorno dopo giorno. In questi tre anni sul Cile è stato detto di tutto, ma ciò che rimane di questo processo è un Paese da rinnovare radicalmente, un Paese che pretende delle risposte ai problemi, un Paese che vuole una Costituzione che li possa rappresentare e, prima ancora, proteggere. A Gabriel Boric l’ardua impresa di riprendere le redini del processo costituente, imparando dagli errori e tenendo conto delle critiche. Ai cileni il compito di non tornare sotto il tetto di cristallo, ma di guardare verso il cielo aperto, chiedendo giustizia, sicurezza, libertà e diritti, a una democrazia che ha tutto da dare e poco da perdere.