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Nella fossa dei leoni. A proposito di intellettuali e destino
di Luca Lenzini
[Intervento all’incontro A cosa servono gli intellettuali oggi, Torino, 20 aprile 2017].
«You call it luck, I call it destiny»
Danny Dravot a Peachy Carnehan,
The Man who would be a King
1. «Ah elle est bonne!»
Negli anni Settanta Gilles Deleuze e Michel Foucault negavano apertamente agli intellettuali il diritto di “parlare per gli altri”, in coerenza con una contestazione altrettanto radicale del concetto di rappresentanza. Per questo un libretto che raccoglie le conversazioni di quel periodo tra Deleuze e altri (oltre a Foucault, Toni Negri, Félix Guattari, Guy Dumur), riproposto ora in Italia da Medusa, può legittimamente intitolarsi La fine degli intellettuali1. La prospettiva in cui s’inserivano quei discorsi, infatti, era in chiave con una idea di rivoluzione sociale – niente di meno – quale a partire dalla fine del decennio precedente aveva avuto corso non solo in Europa, ma anche negli U.S.A. e in America latina. Verso la fine degli anni Ottanta Zygmunt Bauman pubblicò poi un libro intitolato Legislators and Interpreters2, titolo che nell’edizione italiana passò a sottotitolo, mentre nel frontespizio ne campeggiava un altro, La decadenza degli intellettuali3. Potrebbe sembrare che vi sia continuità tra la fine auspicata da Deleuze e la decadenza annunciata da Bauman, ma le prospettive erano invece profondamente diverse e c’era di mezzo una svolta epocale. Non a caso, Bauman in chiusa al suo saggio affrontava di petto il tema del Post-moderno, e lo faceva riproponendo in positivo una tradizione coincidente con quella stessa della Modernità, ovvero il progetto di emancipazione e autonomia di cui la cultura neoliberista, presentandosi come continuatrice, si è in realtà bravamente sbarazzata. Chissà se il traduttore italiano (o l’editore stesso di Legislators, Alfredo Salsano, un intellettuale d’indubbio spessore), così interpretando il titolo del libro, abbia allora inteso connotare l’evoluzione (o involuzione) indicata da Bauman partendo dall’assunto che l’idea di decadenza, a quell’altezza, faceva ormai parte dei luoghi comuni, incluso quel tanto di ridicolo che dall’ultima fin de siècle accompagna la categoria, sia pure indistinta nei lineamenti sociali e ridotta a postura o stereotipo. Certo è che la revoca del “mandato”, per dirla con il Fortini dei Sixties, avveniva ora per opposte ragioni, non più “dal basso” e in vista del mutamento, ma dall’alto e per mantenere lo status quo di una società sì divisa, ma normalizzata e come tale regolata da saperi settoriali, specialistici. Del resto, Herbert Lottman in La rive gauche (1983) aveva pur dipinto la parabola di progressiva emarginazione del ruolo degli intellettuali francesi tra il “Fronte Popolare” e la “Guerra Fredda” chiudendo il suo ampio affresco con una battuta da Fin de partie di Samuel Beckett: «Significare? Noi, significare? Ah, questa è buona!»4.
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