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Nell’urbanizzazione del mondo la distinzione tra natura e cultura non tiene più
[Testo riveduto della relazione presentata il 18 febbraio scorso nella serie di seminari online su “Il disordine della natura e la via verso un nuovo modello di sviluppo”, a cura della Fondazione per la critica sociale, Legambiente e Crs Toscana.]
Affrontare concettualmente la pandemia richiede un supplemento di riflessione intorno alla distinzione natura/cultura così come si è configurata da sempre. Non si tratta tanto della questione del “dominio sulla natura”, instaurato fin dalla più profonda antichità (e su cui autori come Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo hanno scritto pagine memorabili), quanto piuttosto di mettere a fuoco un fenomeno completamente nuovo nella storia dell’umanità, quello che si può definire dell’urbanizzazione del mondo. In breve, la parte di esseri umani che abita nelle città è superiore già oggi al cinquanta per cento della popolazione mondiale, e si prevede che questa quota arriverà nel 2030 al sessanta per cento. In un paese come la Cina, in cui il fenomeno appare particolarmente marcato, si è assistito negli scorsi decenni alla nascita e al moltiplicarsi di agglomerati urbani nell’arco temporale di pochi mesi. Quando si usa il termine “epocale”, per indicare un cambiamento, ci si dimentica di applicarlo a questa vera e propria grande trasformazione che tende a cancellare la stessa classica distinzione tra città e campagna, e – con certezza ancora maggiore – relega le nostre città e metropoli nel museo dei ferri vecchi della storia: perché sono gli informi agglomerati urbani, le megalopoli di milioni di abitanti del ventunesimo secolo, ad avere ormai il sopravvento sul vivere cittadino di origine medievale come quello europeo.
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Sulla sindrome identitaria. Una ricerca tra interviste in profondità e questionari online
L’analisi empirica che sta conducendo il gruppo di ricerca sulla sindrome identitaria si sta sviluppando lungo due assi principali. Il primo, è finalizzato a indagare le forme di organizzazione civica dei cittadini di Roma Capitale. Questo asse della ricerca proverà ad analizzare il modo in cui la destabilizzazione degli assetti regolativi tipici delle democrazie liberali trovi nello spazio urbano una sua significativa proiezione. Le esperienze di organizzazione civica che attraversano i territori delle città sembrano infatti essere strettamente correlate alla crisi della governance urbana così come al restringimento e alla segmentazione dell’offerta pubblica di servizi. Di fronte a questo scenario le forme della mobilitazione societaria si presentano però come segnate da una costitutiva ambivalenza: se da un lato queste sembrano alludere a una riappropriazione democratica dello spazio urbano e a una risposta collettiva ai bisogni sociali, dall’altro lato sembrano muoversi nella direzione di un’ulteriore privatizzazione e chiusura identitaria del territorio. Recenti fatti di cronaca hanno messo in luce come attorno alla lotta contro il degrado, così come alla rivendicazione di maggiore “decoro” e “sicurezza” nei quartieri, passi spesso una concezione del territorio urbano come proprietà privata dei cittadini residenti: la stessa carenza dei servizi pubblici viene risolta con l’invocazione di un accesso esclusivo ed escludente alla cittadinanza sociale basato sull’appartenenza a una comunità identitariamente fondata.
Autorizzare la speranza. Poesia e futuro radicale
di Italo Testa
[Questo testo è una forma rielaborata dell’intervento tenuto in occasione della sessione conclusiva dell’incontro “Lirica e società / Poesia e politica”, Casa della Cultura, Milano, 2 marzo 2019 (qui la registrazione della diretta streaming delle tre sessioni dell’incontro)].
È come se oggi la questione della verità tendesse a entrare di prepotenza nel discorso dei poeti. Il compito veritativo della poesia ne occupa la scena, assume un ruolo focale in molte delle prese di posizioni che abbiamo ascoltato anche in occasione di questo incontro. È una mossa non scontata, se teniamo conto che proprio con un conflitto tra poesia e filosofia sul nesso tra apparenza e verità si inaugura la tradizione occidentale di ordinamento dei discorsi. Occorrerebbe chiedersi di che cosa sia sintomo questa esigenza veritativa, se sia semplicemente un’altra reazione all’impero delle fake news, oppure se non riguardi uno spostamento in atto dell’ordine discorsivo. A cosa fa segno la fortuna di cui la figura foucaultiana del parresiasta sembra godere ai nostri giorni tra poeti di orientamenti tra loro molto differenti? Nel passato recente, anche poeti civilmente impegnati come Pasolini, che hanno fatto del loro corpo l’esibizione di una verità scandalosa, erano sicuramente più cauti in proposito, ritenendo che la poesia avrebbe semmai un rapporto obliquo al vero, una relazione non diretta, mediata dall’apparenza.
Ma di cosa parliamo, quando parliamo di verità in poesia? Non tanto di rispecchiamento di una verità di fatto, di un’evidenza cogente da salvaguardare, ma piuttosto di una verità a venire, non data. Si parla di ‘verità’, ma il discorso confina con il terreno su cui campeggia la parola ‘speranza’. Come se la poesia rinviasse a un’idea di mutamento, ma di un mutamento che non può essa stessa produrre. Il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti, di un mondo altro da quello che è, che nel Discorso su Lirica e società di Adorno costituirebbe l’aspetto critico del contenuto sociale della poesia, ripreso nella formula quasi incantatoria del “suono in cui dolore e sogno si congiungono”. Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo che non dipende dal modello di soggettività che di volta in volta una certa concezione dell’io poetico sottoscrive. Al di là del legame, storicamente condizionato, che diversi modelli di poesia hanno intrattenuto con l’io trascendentale della greater romantic lyric, dell’individuo borghese e della sua soggettività monologica, o dell’io narcisista di massa che secondo le analisi ispirate a Lasch caratterizzerebbe l’espressivismo contemporaneo, permane il rinvio a un mutamento possibile che la poesia non può produrre – secondo l’adagio fortiniano per cui la ‘poesia non muta nulla’ di per sé – ma che necessariamente richiama.
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Per un gruppo di ricerca sulla sindrome identitaria
Giuseppe Allegri, Manuel Anselmi, Alberto De Nicola, Renato Foschi, Rino Genovese, Mario Pezzella, Anna Simone
Dalla personalità autoritaria alla crisi dell’identità democratica
Circa settant’anni fa veniva pubblicata la celebre ricerca su La personalità autoritaria condotta tra il 1944 e il 1949 da T.W. Adorno, E. Frenkel-Brunswik, D.J. Levinson e R. Nevitt Sanford (uscita nel 1950 all’interno di una collana dedicata agli Studies in prejudice, a cura di M. Horkheimer e S.H. Flowerman), sostenuta dall’American Jewish Committe e frutto di una collaborazione tra l’impostazione della Scuola di Francoforte, quella della scuola psicoanalitica e ricercatori e ricercatrici di psicologia sociale. Il nostro gruppo intende partire dalla sedimentazione ormai storica di quegli studi per mettere alla prova, con una ricerca specifica, la diagnosi di ordine più generale circa la crisi dell’identità democratica nella sua tradizione liberale, pluralistica e sociale. Nell’ultimo decennio, poi, come conseguenza della grande recessione esplosa nel 2007-2008, si è assistito a una rapida accelerazione della crisi del modello liberale di democrazia fino alla presidenza Trump e al processo Brexit come macro-fenomeni. Il che significa sia la fine conclamata dell’egemonia del “modello atlantico” post-bellico, sia una tendenziale trasformazione della globalizzazione dell’ultimo quarantennio in una sorta di “deglobalizzazione” planetaria.
Siamo oggi alle prese con una riconfigurazione del rapporto governanti e governati, “alto” e “basso”, centro e periferie che, da un lato, sembra riproporre schematizzazioni quasi ottocentesche, visioni elitarie e dirigistiche – l’austerità ordo-liberista e il suo speculare “doppio” nazional-populistico –, mentre, dall’altro, evoca una possibile scomposizione e ricomposizione del demos in un’idea e pratica di cittadinanza attiva intesa come nuova politeia, in grado di aprire spazi di partecipazione verso un superamento dell’organicismo statual-nazionale.
Si tratta di ritornare a interrogare i soggetti, le forme e le sperimentazioni di azioni collettive per democratizzare la democrazia, con processi gius-generativi, capaci di affermare diritti d’inedita cittadinanza sociale, al di là del nesso sovranità-nazione-lavoro salariato, in sintonia con quella transizione che le innovazioni sociali e tecnologiche hanno indotto ormai da tempo, con vite messe al lavoro sulle piattaforme dell’economia digitale e masse di donne e uomini alla ricerca di una vita degna attraverso i flussi migratorî.
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Fortini e il ’68
di Luca Lenzini
[Intervento al ciclo “Franco Fortini e gli anni 68”, coordinato da Pier Paolo Poggio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2 ottobre 2017, nell’ambito del centenario della nascita di Fortini.]
Quando mi è stato chiesto di intervenire su Fortini e il ’68 ho pensato che un modo per affrontare un tema così impegnativo, e con una bibliografia tutt’altro che esigua, poteva essere quello di partire da un flash, da un momento specifico, lasciando alla discussione il compito di tentare sintesi e svolgere discorsi più ampi. Un episodio significativo, da leggere nel contesto del lungo lavoro intellettuale di Fortini, del suo “impatto” sulla cultura circostante, mi è parso allora quello che data all’anno precedente, 1967: per la precisione 23 aprile 1967.
Firenze, piazza Strozzi. La piazza è colma di studenti convenuti per una manifestazione contro la guerra del Vietnam. Dal ’65 gli Stati Uniti bombardano il Vietnam del Nord con una intensità che supera di molto quella della campagna contro la Germania nazista: è l’operazione Rolling Thunder, che tuttavia non impedirà, come sappiamo, la vittoria finale dei vietnamiti. Anche a Berlino, a Pechino gli studenti sono in rivolta, e di lì a poco lo saranno a Berkeley (“The Summer of Love”). Proprio quel giorno era arrivata, inoltre, la notizia del colpo di stato in Grecia. Anni dopo, ha scritto Fortini (cito da Notizie sui testi in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003, p. 1794):
A proposito di Rahel Jaeggi
di Rino Genovese
Non certo per puro mecenatismo la Fondazione per la critica sociale ha promosso la pubblicazione della raccolta di saggi di Rahel Jaeggi, ben curati da Marco Solinas sotto il titolo Forme di vita e capitalismo. La ragione è di fondo: siamo interessati agli sviluppi – in Germania e altrove – della tradizione della teoria critica francofortese, ne studiamo i diversi aspetti riservandoci su ciascuno di essi un giudizio autonomo, come dev’essere nelle questioni di teoria se si vuole che la discussione e il sapere avanzino.
Con Jaeggi (come già nel caso del suo maestro Axel Honneth) siamo all’interno di uno dei ricorrenti ritorni a Hegel che già caratterizzarono la filosofia del Novecento. Sembra proprio che di Hegel – in Germania ma anche altrove – non si riesca a fare a meno. Così la stessa ripresa di Adorno e della sua “critica delle forme di vita” (nel saggio sui Minima moralia che apre il volume) è in effetti un ritorno a Hegel, o, più precisamente, a un’idea aristotelico-hegeliana della “vita buona”. Anche se Jaeggi tiene a precisare che non si tratta d’indicarne in maniera paternalistica una volta per tutte le caratteristiche: aprendo in questo modo a un indebolimento in senso pluralistico della prospettiva etica, per il quale del resto ci sono le premesse già nello stesso Hegel che considerava la modernità come inevitabilmente “riflessiva”, mentre l’ethos di una forma di vita come quella dell’antica polis greca era qualcosa di totalizzante e indiscutibile.
De capitalismo disputandum est
di Leonard Mazzone
[Questo articolo è apparso su “L’Indice”, 6, giugno 2017]
Dallo scoppio della crisi economico-finanziaria a oggi, la nozione di “critica” è tornata al centro del dibattito internazionale delle scienze umane e sociali. Paradossalmente, però, il sistema economico e sociale da cui è maturata quella crisi non è stato sottoposto a un’interrogazione altrettanto attenta e severa, soprattutto da parte degli specialisti di una disciplina a vocazione fortemente normativa come la filosofia politica. All’interno di questo campo disciplinare si è tornati a problematizzare la nozione di critica nella sua doppia veste di attività teorica e di prassi sociale, senza però annoverare fra i suoi oggetti di analisi e, quindi, fra i suoi bersagli polemici il capitalismo neoliberale.
La regolarità di una simile tendenza trova un’eccezione esemplare nel volume Forme di vita e capitalismo curato e tradotto da Marco Solinas, che raccoglie alcuni dei contributi più originali pubblicati in materia da Rahel Jaeggi. Prendendo le mosse da Theodor Adorno e dai suoi Minima Moralia, la titolare della cattedra di filosofia pratica e sociale all’Università di Berlino tenta di aggiornare uno degli obiettivi programmatici originari della Scuola di Francoforte – la critica del capitalismo – rinnovando gli strumenti concettuali adottati dai primi esponenti della teoria critica della società.
Utopia ieri e oggi
di Rino Genovese
[Intervento per il convegno “Utopia, Distopia, Fantascienza” – Cagliari, 30-31 marzo 2017, Facoltà di studi umanistici, Aula 6]
Se si fosse organizzato un incontro di studi sul pensiero dell’utopia una ventina di anni orsono, saremmo andati tanto controcorrente da sembrare dei matti. Com’è noto, è stato quello il momento del suo massimo discredito. Oggi le cose stanno cambiando: una coscienza utopica si riaffaccia all’orizzonte. Un segnale di insoddisfazione, se non altro, nei confronti dell’esistente. Delineare mondi alternativi – un’attività propria della modernità occidentale – non è affatto ozioso: al contrario, è il sale da inserire in qualsiasi realismo politico, di per sé insufficiente quando si tratta di trasformare il mondo perché spinge ad attenersi ai rapporti di forza puri e semplici. L’utopia è invece quel modo di vedere le cose che rende ardimentosi i più deboli, li spinge a battersi per il «sogno di una cosa» – anche se poi il sogno non si realizza, non può realizzarsi, e pretendere di realizzarlo conduce alla distopia, cioè al rovesciamento dell’utopia (come l’esperienza sovietica ha tragicamente insegnato).