Tag: Rino Genovese
Incontro online intorno a due libri sull’individualismo sociale
Socialismo utopico, socialismo possibile
Ciclo “Le forme della città”
A CURA DI: CRS TOSCANA, FONDAZIONE PER LA CRITICA SOCIALE, FONDAZIONE ROSSELLI, LEGAMBIENTE TOSCANA, CONVENTINO, CITTA SOSTENIBILE
La condizione emergenziale della pandemia ci ha spinto a riflettere sulle forme di vita all’interno delle nostre città, evidenziando e portando all’estremo alcuni fenomeni di lunga data. Si tratta di ridefinire, in rapporto a ciò che stiamo vivendo, cosa intendiamo per spazio sociale (un termine di H. Lefebvre). Da tempo gli spazi delle nostre città sono sottoposti a un processo di mercificazione, che ne altera le strutture e l’ambiente, sono letteralmente posti in vendita, in funzione del turismo di massa e della speculazione immobiliare; ne soffre un’altra concezione dello spazio, che invece di articolarlo in funzione della circolazione delle merci, lo vorrebbe finalizzato all’incontro e al riconoscimento delle soggettività degli abitanti. Da sempre l’architettura e la tessitura urbana sono espressione ed estensione spaziale dei rapporti di potere sociali, ma anche – in alternativa – del legame sociale tra gli uomini. Come si configurano oggi nel nostro spazio questi rapporti? Come possiamo modificarli in meglio? Tenendo conto che i modi della mobilità degli abitanti nel loro spazio incidono sulla loro condizione psicologica, e che la bellezza o meno degli edifici e delle strade che li circondano influisce, anche in modo inconscio, sul loro stato emotivo ed affettivo, sulle relazioni che hanno tra di loro, sul modo in cui la loro vita si snoda nel passato verso il futuro e dunque sulla qualità del tempo vissuto. Continua a leggere “Ciclo “Le forme della città””
Contro Walter Siti, per l’impegno
di Rino Genovese
In un incontro online organizzato di recente dalla nostra amica Maria Borio, Dacia Maraini esprimeva la seguente opinione: non può esservi romanzo “impegnato” perché la letteratura è qualcosa che va “più in profondità” rispetto a un giudizio su questo o quel tema politicamente all’ordine del giorno: presa di posizione che, esulando dal campo letterario, il singolo scrittore affermato può però assumere pubblicamente come manifestazione di cittadinanza in virtù del prestigio acquisito con le proprie opere. Si può essere impegnati, insomma, in base alla fama raggiunta. Il che fu sostenuto una volta anche da Sartre – quando uno firma un appello o un manifesto, lo fa perché ha un nome che gli consente di avere una certa eco –, pur non esaurendo affatto la questione di un’arte e di una letteratura impegnate, nemmeno secondo Sartre, essendo in fondo un caso che si sia avuto o no quel successo indispensabile per essere ascoltati, cioè per stare nel circuito dei mass media. La questione dell’esercitare o no un’influenza è altra cosa da quella di una poetica dell’engagement, la cui efficacia, come accade per tutte le poetiche, andrebbe valutata piuttosto all’interno dell’opera.
Sulla sindrome identitaria
Il volume presenta i risultati di due ricerche tra loro collegate, svolte tra il 2018 e il 2020, nell’ambito delle attività della Fondazione per la critica sociale.
La prima, condotta da Cristina Vincenzo e Renato Foschi, è un’analisi di psicologia sociale, mediante lo strumento di questionari diffusi a livello nazionale, intorno alle forme della xenofobia e del razzismo «vecchio stile», cioè ideologicamente strutturato, nei suoi rapporti con il rifiuto dell’altro nelle sue modalità oggi meno evidenti e implicite, per così dire più discrete. La seconda, condotta da Anna Simone e Alberto De Nicola, si concentra sulla città di Roma: è un’inchiesta di taglio sociologico-etnografico, con interviste ai presidenti di alcuni comitati dei cittadini attraverso cui è possibile cogliere il lato oscuro, nelle vesti di una «lotta al degrado» – in una capitale
peraltro afflitta da mille problemi, da quelli della mobilità urbana a quelli della raccolta dei rifiuti, all’abbandono a se stessi di interi quartieri –, di talune realtà organizzate della cosiddetta cittadinanza attiva.
L’introduzione di Rino Genovese, presidente della Fondazione per la critica sociale, mette a fuoco il contesto teorico generale al cui interno si è formato il gruppo di studio sulla sindrome identitaria, definendo quest’ultima
come una patologia a più facce di un bisogno identitario, da parte degli individui e delle collettività, che può avere aspetti positivi o negativi, progressivi o regressivi, a seconda delle forme in cui venga a esprimersi.
Rino Genovese è filosofo ed è stato ricercatore alla Normale di Pisa. Fa parte del comitato editoriale del quadrimestrale di teoria sociale “La società degli individui”. Tra i suoi libri, Gli attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre incursioni (2008); Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere (2009); Che cos’è il berlusconismo. La democrazia deformata e il caso italiano (2011); Il destino dell’intellettuale (2013).
Nell’urbanizzazione del mondo la distinzione tra natura e cultura non tiene più
[Testo riveduto della relazione presentata il 18 febbraio scorso nella serie di seminari online su “Il disordine della natura e la via verso un nuovo modello di sviluppo”, a cura della Fondazione per la critica sociale, Legambiente e Crs Toscana.]
Affrontare concettualmente la pandemia richiede un supplemento di riflessione intorno alla distinzione natura/cultura così come si è configurata da sempre. Non si tratta tanto della questione del “dominio sulla natura”, instaurato fin dalla più profonda antichità (e su cui autori come Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo hanno scritto pagine memorabili), quanto piuttosto di mettere a fuoco un fenomeno completamente nuovo nella storia dell’umanità, quello che si può definire dell’urbanizzazione del mondo. In breve, la parte di esseri umani che abita nelle città è superiore già oggi al cinquanta per cento della popolazione mondiale, e si prevede che questa quota arriverà nel 2030 al sessanta per cento. In un paese come la Cina, in cui il fenomeno appare particolarmente marcato, si è assistito negli scorsi decenni alla nascita e al moltiplicarsi di agglomerati urbani nell’arco temporale di pochi mesi. Quando si usa il termine “epocale”, per indicare un cambiamento, ci si dimentica di applicarlo a questa vera e propria grande trasformazione che tende a cancellare la stessa classica distinzione tra città e campagna, e – con certezza ancora maggiore – relega le nostre città e metropoli nel museo dei ferri vecchi della storia: perché sono gli informi agglomerati urbani, le megalopoli di milioni di abitanti del ventunesimo secolo, ad avere ormai il sopravvento sul vivere cittadino di origine medievale come quello europeo.
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Perché in Italia si muore più che altrove?
di Rino Genovese
Ci s’interroga sulle ragioni della terribile alta mortalità da coronavirus in Italia, un record in Europa: siamo arrivati a 64mila mentre scrivo, e non è ancora finita. Le risposte possibili sono molte. Gli esperti (io naturalmente non lo sono) non hanno saputo ancora trovare una causa per questa ecatombe. Dubito che la troveranno, anche perché le cause – lo abbiamo appreso da tempo – per lo più sono molteplici, e per la spiegazione di un qualsiasi fenomeno si deve sempre parlare di concause. Sembra che tirare in ballo l’età mediamente anziana della popolazione italiana non sia una risposta o, almeno, sia una risposta insufficiente. Dopotutto non è che la Germania, dove di coronavirus si muore assai meno, sia un paese di giovinetti. Una spiegazione del genere potrebbe funzionare per quei paesi in cui l’età media si aggira intorno ai trent’anni (come l’Algeria, per fare un esempio); ma, restando in Europa, pare che il Regno Unito, dove l’età media è più bassa di qualche anno rispetto a quella italiana, si muoia all’incirca quanto in Italia. Là, però, all’epidemia è stata data quasi briglia sciolta con restrizioni, almeno nei primi tempi, poco severe e molto “all’americana”, diciamo così, nell’ideale corrispondenza d’intenti tra Boris Johnson e Trump. Continua a leggere “Perché in Italia si muore più che altrove?”
Seminari su disordine della natura e capitalismo
Interpretare le sfide della nostra epoca per andare oltre il modello capitalistico e immaginare un futuro più giusto e sostenibile
Il ciclo di seminari intende proporre alcune categorie di pensiero che si ritengono utili per comprendere la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Punto di partenza della nostra riflessione sarà il concetto di apocalisse culturale, elaborato da Ernesto De Martino. Un’apocalisse culturale si verifica quando, in seguito a un trauma storico profondo (un’epidemia, una guerra, un’aggressione coloniale, una crisi economica sistemica, una catastrofe ecologica) l’ordine simbolico con cui abitualmente riusciamo a orientarci nella realtà ambiente e nella vita quotidiana viene a essere sospeso, diventa irriconoscibile e ci lascia esposti al caos politico e psichico. Si verifica allora quella che sempre Ernesto De Martino ha definito una crisi della presenza.
Siamo, infatti, di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta. Come ebbe a dire Walter Benjamin in uno dei momenti più drammatici della storia del Novecento, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».
I vari interventi del seminario, di cui proponiamo di seguito gli abstract intendono analizzare da diverse prospettive, a nostro avviso complementari, il dissesto radicale della forma di vita e la crisi della presenza che stiamo vivendo, integrando e sviluppando l’intuizione di De Martino e cercando di prefigurare anche come superare questa crisi per una nuova dimensione della relazione fra natura e cultura come base di un nuovo modello di sviluppo.
Dopo il virus. Osservazioni critiche sull’odierna “critica critica”
di Rino Genovese
Si sente spesso ripetere che la recente pandemia avrebbe approfittato della globalizzazione per diffondersi nelle grandi aree metropolitane del mondo. Ciò non fa che registrare un dato: la velocità con cui si è propagato il virus è il frutto dell’intensificazione dei traffici commerciali, della delocalizzazione della produzione industriale, del turismo di massa, e così via. Ma tutto questo, pur vero, non mette a fuoco un aspetto essenziale. Che è il seguente: le epidemie hanno flagellato la storia dell’umanità nel corso dei secoli, magari con più lentezza ma inesorabilmente. Tuttavia da molti decenni non sembrava più possibile qualcosa di così devastante, almeno nello sviluppato mondo occidentale. A voler richiamare il concetto di “società del rischio”, introdotto da Ulrich Beck, ci troveremmo sfasati: perché quella nozione si riferiva piuttosto al rischio nucleare ed ecologico in senso lato, non alla ripresa di un tipo di devastazione che sembrava far parte del passato. Invece la sorprendente novità dell’epidemia consiste proprio nel suo carattere arcaico. Essa è una delle forme in cui il passato ritorna nel presente, mettendo una volta di più fuori causa, se ancora ve ne fosse bisogno, la nozione di un progresso univoco e lineare. Si potrebbe dire (al netto di ogni tesi insulsamente complottista), è la natura che si ripropone nella cultura in quanto suo ineliminabile retroterra. Si tratta di una natura che, mostrando la sua smorfia terribile, si fa beffe della cultura – ma così rientrando in essa come un aspetto ancora una volta proprio della cultura. E di conseguenza come un oggetto interno allo stesso dibattito politico.
Ha dunque pienamente ragione Aldo Garzia, nell’articolo pubblicato nella sezione “commenti” di questo stesso sito, a sostenere che il virus spinge a ripensare alcune delle nostre categorie politiche fondamentali, a cominciare dal nesso tra i diritti e la libertà. C’è un momento “libertario” nel liberalismo dominante che è del tutto vuoto, ed è altra cosa dalla “libertà sociale” propria del socialismo. Il primo si lascia riassumere nel diritto a una libertà di movimento astratta: un individuo non può essere trattenuto in alcun modo se non quando violi la libertà altrui: per esempio nel caso di un’aggressione fisica a un altro individuo, o anche quando metta in questione il “diritto soggettivo” di questi, come può essere il diritto di proprietà, entrando, poniamo, nel suo giardino senza permesso. Ma che questa libertà – detta “negativa” in quanto consiste nel non ledere il diritto altrui – possa essere limitata in senso “positivo”, come quando si tratti di salvaguardare la salute di una collettività colpita da un’epidemia, questa libertà sociale, orientata non a un diritto individuale astratto ma in questo caso a una più concreta “questione di vita o di morte” che riguarda tutti, è vista come qualcosa d’insopportabile dagli esponenti di un liberalismo estremo. E appare altrettanto insopportabile – occorre sottolinearlo – secondo la prospettiva anarco-individualista (neo-stirneriana, la si potrebbe definire) di una parte dell’odierno pensiero cosiddetto critico.
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Sul dibattito intorno a “Città fai-da-te”
di Carlo Cellamare
Gli interventi di Massimo Ilardi e Rino Genovese su questo sito, a partire dal mio libro Città fai-da-te, sollevano un dibattito molto interessante e mi sollecitano alcune considerazioni che vorrei condividere. Con prudenza e modestia, data la delicatezza delle questioni.
In primo luogo, non penso che la politica possa ridursi a un conflitto di interessi, a un rapporto di forze in campo. Il conflitto svolge un ruolo fondamentale nella vita politica e si radica nella diversità e nel confronto delle posizioni, a loro volta agganciate a interessi in campo, ma la politica ha anche la funzione di costruire una visione del futuro, un progetto di futuro. Quello che facevano nel passato le ideologie e che ora si è disperso. Il conflitto si aggancia a un sistema di interessi che si coagula in un’idea di società, in una prospettiva di convivenza che costituisce il riferimento per un insieme di forze politiche e sociali. Altrimenti, tra l’altro, non avremmo la possibilità di costruire proposte consistenti, ma soltanto una dispersione di posizioni. Le ideologie sono venute meno a questa funzione sia perché non rispondono più adeguatamente alle esigenze sociali in campo e alle prospettive di futuro, sia perché è cambiata la società cui si riferivano. Sempre più mi pare si richieda una politica che sia “significante”, ovvero che risponda in maniera più pertinente alle esigenze e ai vissuti delle persone. Per questo vi è spesso, in maniera diffusa, quello che a Ilardi non piace molto, cioè la ricerca di un riferimento (in maniera implicita o esplicita) a un sistema di valori (il termine può non piacere e possiamo cercarne un altro, ma il significato è quello), un insieme di elementi che vengono considerati importanti per la propria vita (e qui ci avviciniamo a un sistema di “interessi”) e che costituiscono la base di un progetto di futuro. Ne sono un esempio l’ambientalismo o meglio il tema dell’ecologia integrale, ma anche il valore delle differenze e dell’accoglienza (e quindi la lotta al razzismo), e anche la lotta alle disuguaglianze e alla precarietà urbane. Non si tratta solo di fattori ideali, ma di valori molto concreti in risposta a situazioni che minacciano da vicino la vita delle persone, sia direttamente sia attraverso il modello di sviluppo prevalente (e l’esperienza del coronavirus non ce lo potrebbe confermare meglio).
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Lo spazio urbano tra socialità insorgente e barbarie
A proposito di Una città per tutti. Diritti, spazi, cittadinanza, a cura di Alessandra Criconia (Donzelli 2019)
Nella situazione estrema che stiamo vivendo, il concetto di spazio sociale di Lefebvre mostra una tragica attualità. Lo spazio urbano è sociale perché è o dovrebbe essere fonte di interazioni umane, ma lo è anche in senso negativo e deformato. Diventa allora l’espressione dei rapporti e delle gerarchie di potere del capitale, che si estroflettono nella disposizione delle strade, nelle divisioni tra centro e periferia, nel sorgere di muri virtuali e materiali. Comunque sia, esso implica sempre un’articolazione architettonica e urbanistica di relazioni sociali, la loro espressione. E quando una società entra in una crisi radicale ciò rimane vero: ma il modo in cui le parole e le cose spartiscono lo spazio esprime la disarticolazione e il vuoto di un ordine simbolico in disfacimento.
Leggiamo questa descrizione di Berlino nel 1932, di Siegfried Kracauer: «[…] Ora la crisi si vede a ogni angolo di strada […]. Non sono solo i grandi appartamenti ad essere vuoti, anche i caffè sono semivuoti nei giorni feriali […], le strade sono piene di mendicanti, una foresta di mendicanti che si fatica ad attraversare si è introdotta nella città e ricopre l’asfalto. La sera, nelle strade un tempo animate fino a tarda notte, regna una calma strana che ci interroga. Le persone si disperdono rapidamente, restano a casa o sono finite chi sa dove. Si direbbe che esse si rintanano come animali per essere soli con la loro miseria». Kracauer descrive qui uno spazio devastato dalla crisi economica, mentre noi potremmo dire di essere oggi investiti da un flagello naturale, di cui neanche i potenti del mondo sono direttamente responsabili. Ma chi potrebbe negare che la virulenza del contagio non dipenda in certa misura dal folle atteggiamento che il capitale ha imposto verso la natura e dalla violenza irrazionale con cui ha costruito le sue immense megalopoli?
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Antisemitismo di ritorno
di Rino Genovese
L’antisemitismo riaffiora, riemerge dalla latenza. Perché è una sorta di basso continuo che accompagna l’intera storia del mondo occidentale, dal medioevo a oggi; e può essere considerato un barometro circa l’aria che tira nei rapporti della nostra cultura con l’alterità in generale. Quando questi rapporti entrano in una situazione di sofferenza conclamata, rispunta un antisemitismo mai veramente scomparso. L’ebreo è l’altro interno per antonomasia, quello che da sempre è qui e da sempre ci minaccia. L’antisemitismo è un razzismo molto specifico, il suo discorso non ha bisogno neppure del termine “razza” in senso biologico per esprimersi: c’era già prima che questa nozione pseudoscientifica si affermasse, nell’Ottocento, e a maggior ragione può esserci dopo il suo declino a partire dalla seconda metà del Novecento. L’antisemitismo non è un razzismo di tipo coloniale come quello sviluppato nei confronti dei neri, dei gialli, dei rossi, le cui differenze somatiche, percepibili a colpo d’occhio, espongono a una discriminazione spesso anche soltanto implicita, tacita, inserita in una comunicazione puramente gestuale – come quando qualcuno si allontana, magari con una smorfia, vedendo salire un immigrato africano sull’autobus. No, l’antisemitismo vive di una “messa in discorso”, addirittura di un atteggiamento militante che può arrivare fino al pogrom. Per questo è adattissimo a fungere da barometro della xenofobia e dei razzismi in generale: quando dall’implicito si passa all’esplicito, e quando riappare una strumentalizzazione politica della questione dell’alterità, il discorso antisemita riprende quota. Talvolta con un curioso spostamento della prospettiva: si consideri la teorizzazione di una “sostituzione etnica”, riferita oggi agli immigrati per lo più islamici, che – per una sorta di complotto, ordito magari dal finanziere ebreo ungherese-americano Soros – si starebbero imponendo in Europa come un’etnia tendenzialmente prevalente, pronta a rimpiazzare quella occidentale tradizionale, beh, questo stesso argomento della “sostituzione” fu già usato ai tempi dell’affaire dallo scrittore antisemita Maurice Barrès, che affermò: “Che Dreyfus sia un traditore, lo deduco dalla sua razza”. Ci sarebbe stata una macchinazione mondiale ordita dall’alta finanza ebraica con l’obiettivo di rimpiazzare gli europei: all’epoca in modo diretto, oggi piuttosto per interposta persona con il favoreggiamento dell’immigrazione.
Marx e la critica del presente
Marx duecento anni dopo: un’eredità alla prova.
Testi di:
Roberto Finelli
Ferruccio Andolfi
Luca Basso
Stefano Petrucciani
Tania Toffanin
Rino Genovese
Vittorio Morfino
Federica Giardini
Riccardo Bellofiore
Maurizio Ricciardi
Jamila M.H. Mascat
Giorgio Cesarale
Michele Prospero
Marco Gatto
Marco Gatto insegna Teoria della letteratura presso l’Università della Calabria. Ha pubblicato i seguenti volumi: Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura (2008), L’umanesimo radicale di Edward W. Said. Critica letteraria e responsabilità politica (2012), Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente (2012), Glenn Gould. Politica della musica (2014), L’impero in periferia. Note di teoria, letteratura e politica (2015), Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento (2016) e Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura (2018).
L’habitus della critica
Vita tranquilla di Emanuele Castrucci
Alla fine lo hanno semplicemente sospeso dall’insegnamento a Siena. Neppure il suo profilo Twitter è stato chiuso, perché, almeno secondo una certa interpretazione, la Costituzione italiana vieta la rifondazione del partito fascista ma non l’espressione di simpatie naziste e idee antisemite. Si chiama Emanuele Castrucci, professore di provincia già sconosciuto ai più, che ha avuto la sua ribalta nazionale, il suo quarto d’ora di celebrità, grazie ai nuovi media. Adesso avrà una sua piccola corte di supporters. E immagino che anche questo mio pezzo su di lui gli farà piacere.
Una ventina d’anni fa ebbi modo di andare a colazione con lui per iniziativa di un amico comune che volle metterci in contatto. Si mimetizzava ancora. Non lo si sarebbe detto proprio un seguace di Hitler ma uno che, interessato al pensiero di destra, poteva dialogare a sinistra: come molti di quelli che studiano il giurista e filosofo nazista Carl Schmitt, o quegli altri che, abbagliati da Heidegger, evitano di misurarsi con il fatto che il suo profondo pensiero era in larga misura una trascrizione dell’ideologia nazionalsocialista. Non mi riuscì simpatico: lo presi come uno dei tanti personaggi universitari imbottiti di erudizione ma dalla testa confusa. Cercò di attirarmi un po’ sul suo terreno, perché aveva letto qualcosa di mio e sapeva che sono un critico dell’universalismo illuministico. Solo che io lo sono dall’interno, cioè nella forma di un’autocritica dell’illuminismo, non in quella di chi, buttando via il bambino con l’acqua sporca, vorrebbe ancorare l’intera vita sociale e politica alle tradizioni, alle radici, a un presunto ethnos dell’Occidente, che essi vedono di volta in volta minacciato dai complotti del cosmopolitismo ebraico e della massoneria, o più di recente dal fenomeno dell’immigrazione (che, nella mente di alcuni allucinati, sarebbe la conseguenza di una specie di macchinazione su scala mondiale).
Napoli è il mondo
di Antonio Tricomi
[Articolo uscito sulla rivista on-line Fatamorgana]
«Il caos della plebe – in cui precipitano i frantumi di classi decomposte, culture in declino, popoli vinti – è esso stesso un prodotto dello sviluppo del capitale. I senza voce hanno perso una parola che possedevano, sono stati espropriati della identità originaria, e non hanno accesso al linguaggio astratto della modernità del capitale».
Questa la tesi di fondo propostaci da Mario Pezzella in Altrenapoli (Rosenberg & Sellier). Libro che non ritrae il nostro tempo – una sorta di riaffiorato medioevo: in cima, una casta socialmente impune di signori e, alla loro mercé, un’indistinta massa di monadi vieppiù umiliate nella propria dignità – come un mero incidente di percorso sulla via della modernizzazione capitalistica. Invece, esso lo giudica l’esito naturale del plurisecolare dominio di un capitale che, «nella sua storia passata e presente», sempre si è confermato «un processo attivo di privazione di diritti, di soggettività e di parola», costringendo «interi ceti sociali che possedevano un “saper fare” specifico» a scivolare «nell’amorfia della plebe», a veder schiantato il proprio «statuto simbolico», a stiparsi in «un non essere di compattezza e mutismo». Gli attuali fenomeni di plebeizzazione patiti, nel mondo intero, dalle varie comunità nazionali discendono cioè, per Pezzella, dall’ormai incontrastato processo di accumulazione capitalistica, pronto altresì a convertire in «prodotto» ciascuna nostra città, se «lo spazio in cui si svolge la vita quotidiana è divenuto esso stesso merce in ogni sua piega». Se «l’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde poliedricamente in più centri commerciali». E se tale «processo di urbanizzazione è dunque al contempo di ruralizzazione: l’amorfa continuità dell’una nell’altra sostituisce l’antica dialettica di città e campagna». Continua a leggere “Napoli è il mondo”
Inconscio sociale e parole della politica
Politiche della città
Incontro intorno a lirica e società
2 marzo 2019
Casa della Cultura
Via Borgogna – Milano
A sessant’anni di distanza dal Discorso su lirica e società di Adorno, possiamo ancora affermare che “il prodotto lirico è sempre anche l’espressione soggettiva di un antagonismo sociale”? E che nella poesia più avvertita si esprimerebbe una “reazione alla reificazione del mondo”, se non “il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti”? Oppure la mutazione radicale del panorama sociale impone un ripensamento anche del ruolo della poesia e del suo legame con l’universale? E se potessimo ancora guardare alla “poesia come meridiana della filosofia della storia”, quali direzioni ci indicherebbero le scritture contemporanee?
Muovendo da queste domande, l’incontro “Lirica e società / Poesia e Politica”, promosso dalla rivista di poesia, arti e scritture “L’Ulisse”, con il sostegno della
Fondazione per la Critica Sociale, e organizzato da Paolo Giovannetti e Italo Testa, invita importanti poeti e critici attivi nel panorama contemporaneo a
riflettere in prima persona sui modi in cui, oggi, il linguaggio poetico si rapporta, direttamente o indirettamente, con il vivere sociale, attraverso lo stile e/o il contenuto, la postura autoriale ecc., instaurando un rapporto critico, magari contraddittorio, con le forme di vita del nostro tempo.
Sui “gilet gialli” (2)
di Rino Genovese
Il conflitto sociale aperto in Francia dai “gilet gialli” dura ormai da tre mesi, non accenna a placarsi, e – sebbene la partecipazione alle manifestazioni, com’è fisiologico, sia in calo – non pare che lo sia la violenza degli scontri. Di fronte all’assurdo e criminale uso delle flash-ball da parte della polizia, che provocano lesioni anche gravi, i manifestanti hanno messo in pratica una distruttività rivolta contro le cose, e si sono organizzati con squadre di pronto intervento capaci di soccorrere i feriti. Questa e altre forme di solidarietà nella lotta – tutt’uno con l’autorganizzazione – sono un aspetto rilevante e perfino commovente di qualsiasi movimento strutturato, come ormai può essere definito quello dei “gilet gialli”.
Ma la sua ambiguità politica resta intera. Direi che è costitutiva di un’insorgenza nata da una rivolta antifiscale (in particolare riguardo a una tassa “ecologica” sui carburanti), su un piano quindi ridistributivo: un movimento che individua la controparte nel governo e nel presidente della Repubblica (per via di quella “monarchia repubblicana” caratteristica del sistema francese, e certo a causa delle sue politiche che, per fare un esempio, hanno abolito la “tassa di solidarietà sulla fortuna”), ma non la individua nel padronato, tutt’al più nella finanza e nelle banche, secondo una postura consueta nei populismi, di destra o di sinistra che vogliano essere. È un movimento bianco, anche se con una forte presenza femminile, che non si cura minimamente di coinvolgere i dimenticati delle banlieues (gli emarginati “di colore” che nel 2005 avevano dato vita alle “notti dei fuochi”), e neppure cerca un’alleanza con il sindacato (quello dei ferrovieri aveva promosso nel giugno scorso una serie di agitazioni non da poco, rimaste tuttavia scollegate dalla realtà sociale nel suo insieme), molto interno ai bisogni della provincia francese (che, per chi non la conosca, è un altro paese rispetto a quello della grandeur parigina), infine diviso politicamente sull’atteggiamento da tenere riguardo alle elezioni europee. Evidente, infatti, che una o addirittura più liste che si richiamassero ai “gilet gialli” sarebbero un favore fatto a Macron, perché frammenterebbero un’opposizione già, peraltro, molto frammentata; mentre, d’altro canto, la prospettiva di votare per i due aspiranti leader peronisti – cioè Mélenchon o Marine Le Pen – sancirebbe una perdita di autonomia da parte del movimento.
Perché Battisti?
di Mario Pezzella
Che un detenuto sconti la pena per cui è stato condannato rientra in quella che si conviene di chiamare la nostra civiltà giuridica, anche se condivido la posizione espressa in questo sito da Rino Genovese sulla necessità di un nuovo processo per Cesare Battisti1; che un detenuto, chiunque esso sia, sia esposto a un disgustoso ludibrio mediatico, moralmente linciato, e sottoposto a misure detentive disumane e ingiustificate (dato che è difficile supporre che Battisti abbia un potere di evasione o di comando simili a quello dei capi mafiosi o di Carminati) è invece un puro segno di barbarie pregiuridica; forse anche di rammollimento cerebrale, come traspare dal video ignobile postato dal ministro della giustizia.
Ma lasciando la cronaca del caso, vorrei fare qualche riflessione di carattere più generale. Perché ministri del governo italiano, a quarant’anni di distanza dai crimini di cui è accusato, allestiscono un buffonesco trionfalismo mediatico sull’arresto di Cesare Battisti?
Battisti, processo da rifare
di Rino Genovese
Quando l’eco mediatica e propagandistica intorno alla cattura di Cesare Battisti e al suo rientro in Italia si sarà spenta, si dovrà ritornare sulle ragioni che hanno spinto alcuni di noi a difenderlo in tutti questi lunghi anni. Il militante dei Pac (“Proletari armati per il comunismo”) avrà di sicuro la responsabilità politica e morale degli atti terroristici compiuti, degli omicidi, delle rapine e quant’altro, ma non si può proprio dire che abbia ricevuto un trattamento giudiziario equo. Condannato all’ergastolo in contumacia, cioè in un processo svoltosi in sua assenza – che, in alcuni ordinamenti, tra cui quello francese, dev’essere obbligatoriamente ripetuto quando poi si dia la presenza dell’imputato –, Battisti è stato giudicato in base a una legislazione di emergenza che ha consentito ai collaboratori di giustizia – i cosiddetti pentiti – di ottenere notevoli benefici e sconti di pena. È evidente che, se uno dei co-imputati è un fuggiasco evaso dal carcere, come nel caso di Battisti, si tenderà a scaricare su di lui gran parte delle responsabilità penali. E i riscontri, che i magistrati sono comunque tenuti a fare, sono pressoché impossibili in assenza delle dichiarazioni dell’imputato. Battisti è stato condannato per un insieme di reati gravissimi senza che vi sia stato alcun confronto con chi lo accusava. Ciò anche senza parlare di episodi di tortura, che in questa vicenda non sono documentati, mentre lo sono in parecchi altri casi, confermati da funzionari di polizia come il mio quasi omonimo Rino Genova e il tenebroso Nicola Ciocia, soprannominato professor De Tormentis dai suoi stessi colleghi. Continua a leggere “Battisti, processo da rifare”
La filosofia politica come critica sociale
10,00 – Introduce e presiede: Barbara Henry
10,30 – I SESSIONE: Metodi, forme e pratiche della critica sociale
Alfonso Maurizio Iacono: Marx, la critica sociale e la condizione postmoderna
Vinzia Fiorino: L’”utopia della realtà”: una riflessione su Franco Basaglia
Vincenzo Mele: Come è possibile un intellettuale? Teoria e pratica della critica sociale a parre da Pierre Bourdieu
Marco Solinas: Sul posizionamento del critico sociale
12,30 – Discussione
14,15 – II SESSIONE: La critica dei populismi
Rino Genovese: Può la cosiddetta filosofia politica affrontare la questione dei populismi?
Giuliano Guzzone: Ernesto Laclau e la “presenza assente” della categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”
Anna Loretoni: Aspetti regressivi nelle democrazie contemporanee
Luca Corchia: Sfera pubblica e comunicazione politica online. Il modello analitico habermasiano e lo stile populista
Serena Giusti: La Russia è immune dal populismo?
16,45 – Discussione
17,30 – Conclusioni: Barbara Henry
Sui “gilet gialli”
di Rino Genovese
Che si tratti di un conflitto sociale vero e proprio è fuori discussione. Nella Francia delle scorse settimane nulla di ciò che contrassegna una rivolta è mancato: l’autoconvocazione attraverso i nuovi media, poi i blocchi stradali, i più tradizionali scontri con la polizia, gli incendi, i danneggiamenti, i saccheggi. Il conflitto dei “gilet gialli” (inizialmente provocato da un aumento della fiscalità sui carburanti per finanziare la “transizione ecologica”) è senz’altro di ampia portata, qualcosa che – aspetto nient’affatto secondario –mette la provincia francese contro la capitale. Parigi è oggi una metropoli abitata da una specie di neo-aristocrazia, da una élite del denaro, delle professioni e del commercio, con il suo centro di potere definito da quella “monarchia repubblicana” tipica del presidenzialismo di matrice gollista.
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di Rino Genovese
[Testo dell’intervento al convegno “Quale Europa?”, Firenze, 27/10/2018]
Se si va a vedere, non ci sono mai state le forze soggettive per realizzare l’unità europea, meglio ancora un federalismo europeo. Non c’è mai stato un blocco sociale che ha sostenuto questa prospettiva. Neppure i sindacati hanno mai realmente svolto un ruolo in questo senso. Ci sono state nella storia delle élite tutt’al più che ne hanno parlato, o ne hanno vagheggiato. È il caso, ancora nel pieno della seconda guerra mondiale, del famoso Manifesto di Ventotene. Ma se si va a rileggere questo testo non si trova alcuna indicazione utilizzabile oggi, neppure nel senso di una sua possibile rivisitazione. I suoi estensori sono critici della sovranità statale (che ritengono foriera di imperialismo e di guerre), sono contrari al collettivismo marxista, sono antiprotezionisti e libero-scambisti in economia e giacobini in politica, prendendo anche in considerazione un periodo di dittatura rivoluzionaria al momento della caduta del fascismo, che per loro, quando scrivono, è ancora lontana. Sono coerentemente elitisti, parlano di minoranze rivoluzionarie (e nel testo, pur nella critica del comunismo, c’è un apprezzamento per Lenin che avrebbe saputo imporre l’azione di un’avanguardia rivoluzionaria).
Gli errori di Marx
di Rino Genovese
Quando si parla degli errori di Marx, ci si riferisce per lo più alle sue previsioni sbagliate: alla teoria dell’impoverimento crescente (smentita dallo sviluppo dei ceti medi e dal relativo benessere che, fin dai primi del Novecento, coinvolse anche la classe operaia), oppure alla presunta legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, che avrebbe dovuto condurre il modo di produzione capitalistico verso la sua crisi risolutiva.
Ma questi “errori” fanno parte in effetti di un unico grande errore compiuto da Marx, quello di avere voluto conferire alla sua critica dell’economia politica lo statuto di una scienza “predittiva” sul modello delle scienze naturali. Al contrario la teoria di Marx s’inserisce, sia pure con un suo alto livello di complessità, in una tradizione che è quella del pensiero utopico. Si tratta allora di ritornare alla radice utopica del socialismo, anziché predicare un “socialismo scientifico”.
Riconfigurare i flussi
Riconfigurare i flussi
Globali, migratori, interculturali, biologici, di coscienza
Il convegno è focalizzato sul tema dei flussi, di cui offre una lettura ad ampio raggio e di taglio
interdisciplinare: dalle dinamiche migratorie nelle loro molteplici valenze sociali, culturali e
genetico-biologiche, ai flussi politico-economici globali a quelli di pensiero e di coscienza.