di Marco Gatto
[Questa recensione è apparsa su “il manifesto” del 3 settembre 2016]
Il mito della trasparenza, del palazzo di vetro, dell’assoluta visibilità sembra aver trovato, oggi, la sua piena realizzazione sociale, tanto da vederne esaurite le spinte propulsive e le tensioni utopiche, che avevano invece contrassegnato la sua vita almeno a partire dal secolo dei Lumi. Oggi la trasparenza è un lasciapassare politico che mette d’accordo tutti: nell’epoca che distrugge a tutti i livelli la mediazione, a beneficio di una superficie che deve neutralizzare e cancellare le tracce della sua emersione, l’ideologia del puramente contemplabile e visibile appare come un’articolazione pervasiva di una più generale tendenza all’ostensione e all’esposizione. Essere in vetrina ed essere trasparenti: due imperativi da seguire e due pratiche di depoliticizzazione.
In un recente e documentato libro, Riccardo Donati traccia la storia culturale e ideologica del concetto di trasparenza, mostrando come esso abbia ottenuto, da due secoli a questa parte, le più diverse declinazioni, fino a giungere alla sua integrazione nello «scenario postdemocratico ipermediatizzato».
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