di Stela Xhunga
Primi nel mondo ad abolire la pena di morte e a convincere le potenze mondiali a seguirne l’esempio, oggi gli italiani vogliono la pena di morte. La vogliono davvero, non metaforicamente: quasi la metà degli italiani (il 43,7 per cento) si dice favorevole alla sua introduzione nel nostro ordinamento, nero su bianco, nel consueto rapporto annuale del Censis che parla “di un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause”. Il dato sale al 44,7 per cento tra i giovani compresi tra i 18 e i 34 anni.
Quando un ragazzo ventiseienne fece abolire la pena di morte
Quando nel 1764 fece pubblicare Dei delitti e delle pene Cesare Beccaria era un giovane marchese di 26 anni imbevuto dell’umanitarismo e della filosofia di Montesquieu, enciclopedisti, Hume, Bentham, Locke, ma soprattutto Rousseau. Quando nel 2018 Giorgia Meloni scriveva di volere “abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro” ne aveva 41. Alle volte l’età è proprio un dato anagrafico che non significa nulla. Il trattato di Beccaria, messo all’Indice tra i libri proibiti dalla Chiesa nel 1766, è una delle cose di cui gli italiani dovrebbero andare più fieri, più della pizza e del mare, per intenderci. L’abolizione della pena di morte, l’ispirazione egualitaria secondo cui alla radice del crimine c’è la disuguaglianza economica e sociale, la laicità che disciplina il diritto di punire, se tutto ciò oggi è possibile – sia pure talvolta faticosamente – in Italia e in Europa è grazie anche al libro di un italiano. Non è un’esagerazione.
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