di Stela Xhunga
Scontri, come non se ne vedevano da un po’. Prima a Napoli, poi Roma, Milano, Torino, Trieste, Cremona, Lecce, Verona, Cosenza, Ferrara, Salerno, Palermo e Siracusa. Mentre i media trasmettevano in diretta le cariche della polizia sotto il palazzo della Regione a Milano e le vetrine rotte di Gucci a Torino, quasi in contemporanea, in piazza Unità d’Italia, a Trieste, si assembravano migliaia di persone aizzate dal sindaco Roberto Dipiazza e dal governatore Massimiliano Fedriga, entrambi fisicamente presenti a una manifestazione che in teoria doveva essere contro il nuovo decreto varato dal governo ma che in pratica è stata salutata da molte braccia tese con la mano aperta.
Pensare che dietro ogni disordine al di sotto del Po ci siano solo camorristi e al di sopra il Po solo Black Bloc è operazione miope, che non fa bene a nessuno, men che meno oggi che l’identità dei manifestanti è frammentata, spuria. Fatta eccezione per coloro che un’identità la rivendicano con il braccio teso, è difficile, finanche impossibile catalogare le persone in rivolta. E poiché lo spettacolo andato in scena, con ogni evidenza, è solo l’inizio, tanto vale porsi interrogativi elementari, senza ambire a nessuna conclusione.
Chi sono i manifestanti oggi in Italia? Difficile dare loro un’identità nelle strade e nelle piazze, non potendolo fare nella società. La coscienza di classe, con lotte su obiettivi e temi comuni fu in grado di creare forme di aggregazione fino agli anni settanta, nell’attuale configurazione socioeconomica risulta oramai superata da meccanismi disgregativi quali individualismo, derisione per la marginalità sociale e corsa contro un potenziale nemico. Di fatto le classi continuano a esistere, ma manca la coscienza. Si è creduto che il consumismo fosse livellante, democratico, con l’operaio e il manager entrambi in fila al Mac drive, e invece il consumismo non ha cancellato le classi sociali, ha solo cancellato la percezione che le classi sociali hanno di se stesse, rendendole innocue rispetto ai dispositivi di potere. Né, d’altro canto, l’essere interconnessi e digitalizzati ci ha dato strumenti atti a sopperire alla mancanza di coscienza: non più gruppo, comunità, siamo “sciame”, per dirla con Byung Chul Han, intrappolati in un sempiterno presente, incapaci di praticare nella realtà un qualsiasi agglomerato che possa anche solo somigliare a un “noi”. E di fronte alle sparute categorie che ancora si riconoscono tali, come superare le forti implicazioni identitarie che ciascuna categoria inevitabilmente rivendica, come far confluire le rispettive minoranze in una maggioranza condivisa, come, in definitiva, trasformare le singole rivolte in una lotta sociale, dove non ci sia spazio per le infiltrazioni – che comunque, a onor del vero, sono sempre esistite e sempre esisteranno – ora che la pandemia ha fatto esplodere problemi latenti e riconducibili a cause assai precedenti al virus? Non potendo dare loro un volto uniforme, occorre analizzare le loro volontà, chiedersi cosa vogliono. Continua a leggere “In rivolta senza un volto”