di Enzo Scandurra
In origine il termine “ecologia” (Haeckel, 1873) stava a indicare la relazione generale e al tempo stesso intima che lega il vivente al mondo del non vivente. Il termine “ecosistema” (coniato da Tansley nel 1935) si comprende nell’ambito dalla teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, e può essere definito come un sistema (ecologico) composto di elementi biotici (tutti gli esseri viventi) e abiotici (rocce, oceani, catene montuose, fiumi) tra loro fortemente interconnessi tale che il tutto è maggiore della somma delle parti (a causa delle proprietà emergenti), attraversato da flussi di energia solare e finalizzato verso uno scopo (l’equilibrio della biosfera). Edgar Morin ha sostenuto che l’ecologia, all’origine, era una sorta di metadisciplina dal contenuto fortemente “trasgressivo” perché tendeva a mettere in discussione i saperi esistenti ingessati in discipline specialistiche e separate tra loro da steccati rigidi.
Con il tempo questa materia si è trasformata in disciplina, perdendo il carattere trasgressivo iniziale e costretta a confrontarsi con le altre discipline esistenti. Oggi è una delle tante materie di insegnamento universitario ed è entrata perfino nelle aule scolastiche al pari di altre discipline. Essa è stata poi riproposta con l’aggiunta di qualificativi, come deep ecology (Aerne Naesse, 1973), ecologia integrale (papa Francesco più di recente), per riacquistare e anzi estendere il proprio contenuto originario ad altre sfere non biologiche e per cercare di spiegare i conflitti in atto sul pianeta.
Le sempre più violente manifestazioni climatiche hanno messo in minoranza i negazionisti del riscaldamento del pianeta (ovvero della biosfera) e generato in tutto il mondo movimenti di giovani attorno al Friday for Future ed Extintion Rebellion. Il cambiamento climatico e l’estinzione rapida di specie animali e vegetali non sono ormai limitati a parti del pianeta ma hanno assunto un carattere planetario. Però l’indifferenza a tutto ciò non è solo dei negazionisti, dei politici cinici o indaffarati in ben altre cose, o degli scienziati pagati dai grandi gruppi che controllano le produzioni. Essa è anche il prodotto di una cultura diffusa basata sul falso presupposto che l’uomo potrà sempre superare ogni problema. La questione oggi, citando Roqueplo, non è più tanto quella di “dominare la natura” (il riduzionismo di Bacone e di molti altri scienziati del Seicento e Settecento), quanto quella di sopravvivere alle conseguenze di questo “dominio”, cioè “dominare” il nostro stesso “dominio”.
Tuttavia fenomeni come il cambiamento climatico e l’estinzione di massa non riescono a incidere sul comportamento dei governi planetari né quello dei poteri dominanti (agenzie transnazionali, ecc.) se non nel senso di tentare timidamente di orientare i prodotti e i consumi verso obiettivi di inefficace sostenibilità. Se anche oggi stesso (il che è del tutto irrealistico) le multinazionali che controllano la produzione, i grandi istituti finanziari e bancari, i gruppi di potere, i governi e i decisori politici, arrivassero a mutare rotta per tentare di ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici e il degrado del pianeta, ne seguirebbe una crisi economica di enormi dimensioni che coinvolgerebbe l’intero pianeta. E ci vorrebbero decine di anni perché un’umanità ridimensionata e più allineata con la natura, riuscisse poi a trovare nuovi equilibri economici, sociali, politici.
Questo cambiamento (ammesso che si voglia veramente fare prima che l’apocalisse ambientale non finisca con il renderlo necessario) non può essere messo in moto da quegli stessi gruppi che per avidità e interessi ci hanno portato su questa strada. Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile coniato nel 1987 dalla Commissione Brundtland (Our Common Future), è diventato uno slogan vuoto di senso: perfino le merendine per i bambini vengono definite sostenibili.
A ben vedere il conflitto scatenato contro la natura oggi può essere letto come un conflitto globale che sottende sempre più ogni conflitto economico, sociale, politico che attraversa il pianeta. Quali sono le ragioni che spingono i migranti dell’Africa (ipocritamente suddivisi in migranti economici e profughi di guerra) a rischiare la vita per approdare ai lidi dell’Occidente se non in primis la crisi climatica che desertifica le loro terre rendendole aride come un deserto? E perché la crisi economica innescata in tutto l’Occidente, trasformata in austerity, non accenna a essere superata come avveniva in passato ricorrendo a ricette classiche dell’economia? E quali sono le cause delle tante guerre sparse sul pianeta se non l’accaparramento delle risorse: acqua e petrolio. E quali le cause più vistose della crisi delle nostre grandi città se non quelle dei rifiuti, dell’inquinamento prodotti in parte dall’accoppiata petrolio/macchina, dal traffico caotico, ecc. E come spiegare il conflitto sempre più aspro tra produzione industriale e ambiente (si veda il caso di Taranto)?
Queste crisi non potranno mai essere superate se non si rivedono i modelli di produzione e consumo che hanno portato a tale disastro, il che cosa e il come produrre e consumare, e se non ci si allinea con la “produzione” della natura, rispettandone i cicli e le leggi.
I nuovi conflitti che sconvolgono tutte le categorie novecentesche note (lavoro, classe, produzione) devono essere letti alla luce della crisi ecologica che sconvolge il pianeta e che imporrà una revisione dell’economia. In tal senso dovremmo parlare di ecologia politica sia per indicare le necessarie misure da intraprendere a tempi medio-brevi per scongiurare la catastrofe climatica, sia per delineare nuovi orizzonti della politica non più ancella sottomessa all’economia. Presto o tardi gli indicatori economici con i quali misuriamo il benessere di una nazione (pil, debito sovrano, crescita) saranno delle scatole vuote, inefficaci per misurare la necessaria transizione alla riconversione dell’economia in direzione ecologica.