Interventi

Roma-Gra

La città spezzata

Roma-Gradi Walter Tocci

[Il 7 febbraio scorso, nella Facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma “La Sapienza”, è stato presentato il volume di Alessandro Lanzetta, Roma informale. La città mediterranea del GRA (Manifestolibri, 2018). Sono intervenuti Enzo Scandurra, Carlo Cellamare, Massimo Ilardi e Walter Tocci. Riproponiamo l’intervento di quest’ultimo].

Questo piccolo libro pone al centro la più grande questione di Roma, cruciale e di enorme complessità: che cosa ne faremo della città del Grande Raccordo Anulare? Appaiono ormai fuori gioco tutte le tecniche, le ideologie, l’intero immaginario novecentesco attraverso cui in passato abbiamo pensato la questione. Si tratta di una vera e propria sfida, e Alessandro Lanzetta, con uno stile aforistico, allusivamente nietzschiano, cerca di mettere a punto gli strumenti che potrebbero servirci in futuro.

Anzitutto nel suo libro c’è una messa fuori causa del mainstream urbanistico, mediante una critica ironica, sprezzante – e sarebbe questo un lavoro da fare oggi in modo militante. Abbiamo infatti una frattura nel pensiero su Roma. Tutta la classe dirigente (di cui io stesso porto una parte di responsabilità) pensa ancora con le categorie del “modello Roma”. È un detrito che rimane, un maistream vecchio e superato. Le cose interessanti provengono invece da giovani studiosi, policy makers, avanguardie culturali, che restano però del tutto isolate. Continua a leggere “La città spezzata”

Perché Battisti?

Cesare Battisti

di Mario Pezzella

Che un detenuto sconti la pena per cui è stato condannato rientra in quella che si conviene di chiamare la nostra civiltà giuridica, anche se condivido la posizione espressa in questo sito da Rino Genovese sulla necessità di un nuovo processo per Cesare Battisti1; che un detenuto, chiunque esso sia, sia esposto a un disgustoso ludibrio mediatico, moralmente linciato, e sottoposto a misure detentive disumane e ingiustificate (dato che è difficile supporre che Battisti abbia un potere di evasione o di comando simili a quello dei capi mafiosi o di Carminati) è invece un puro segno di barbarie pregiuridica; forse anche di rammollimento cerebrale, come traspare dal video ignobile postato dal ministro della giustizia.

Ma lasciando la cronaca del caso, vorrei fare qualche riflessione di carattere più generale. Perché ministri del governo italiano, a quarant’anni di distanza dai crimini di cui è accusato, allestiscono un buffonesco trionfalismo mediatico sull’arresto di Cesare Battisti?

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Battisti, processo da rifare

Cesare Battisti

di Rino Genovese

Quando l’eco mediatica e propagandistica intorno alla cattura di Cesare Battisti e al suo rientro in Italia si sarà spenta, si dovrà ritornare sulle ragioni che hanno spinto alcuni di noi a difenderlo in tutti questi lunghi anni. Il militante dei Pac (“Proletari armati per il comunismo”) avrà di sicuro la responsabilità politica e morale degli atti terroristici compiuti, degli omicidi, delle rapine e quant’altro, ma non si può proprio dire che abbia ricevuto un trattamento giudiziario equo. Condannato all’ergastolo in contumacia, cioè in un processo svoltosi in sua assenza – che, in alcuni ordinamenti, tra cui quello francese, dev’essere obbligatoriamente ripetuto quando poi si dia la presenza dell’imputato –, Battisti è stato giudicato in base a una legislazione di emergenza che ha consentito ai collaboratori di giustizia – i cosiddetti pentiti – di ottenere notevoli benefici e sconti di pena. È evidente che, se uno dei co-imputati è un fuggiasco evaso dal carcere, come nel caso di Battisti, si tenderà a scaricare su di lui gran parte delle responsabilità penali. E i riscontri, che i magistrati sono comunque tenuti a fare, sono pressoché impossibili in assenza delle dichiarazioni dell’imputato. Battisti è stato condannato per un insieme di reati gravissimi senza che vi sia stato alcun confronto con chi lo accusava. Ciò anche senza parlare di episodi di tortura, che in questa vicenda non sono documentati, mentre lo sono in parecchi altri casi, confermati da funzionari di polizia come il mio quasi omonimo Rino Genova e il tenebroso Nicola Ciocia, soprannominato professor De Tormentis dai suoi stessi colleghi. Continua a leggere “Battisti, processo da rifare”

La filosofia politica come critica sociale

10,00 – Introduce e presiede: Barbara Henry

10,30 – I SESSIONE: Metodi, forme e pratiche della critica sociale
Alfonso Maurizio Iacono: Marx, la critica sociale e la condizione postmoderna
Vinzia Fiorino: L’”utopia della realtà”: una riflessione su Franco Basaglia
Vincenzo Mele: Come è possibile un intellettuale? Teoria e pratica della critica sociale a parre da Pierre Bourdieu
Marco Solinas: Sul posizionamento del critico sociale
12,30 – Discussione

14,15 – II SESSIONE: La critica dei populismi

Rino Genovese: Può la cosiddetta filosofia politica affrontare la questione dei populismi?
Giuliano Guzzone: Ernesto Laclau e la “presenza assente” della categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”
Anna Loretoni: Aspetti regressivi nelle democrazie contemporanee
Luca Corchia: Sfera pubblica e comunicazione politica online. Il modello analitico habermasiano e lo stile populista
Serena Giusti: La Russia è immune dal populismo?

16,45 – Discussione

17,30 – Conclusioni: Barbara Henry

Sui “gilet gialli”

di Rino Genovese

 Che si tratti di un conflitto sociale vero e proprio è fuori discussione. Nella Francia delle scorse settimane nulla di ciò che contrassegna una rivolta è mancato: l’autoconvocazione attraverso i nuovi media, poi i blocchi stradali, i più tradizionali scontri con la polizia, gli incendi, i danneggiamenti, i saccheggi. Il conflitto dei “gilet gialli” (inizialmente provocato da un aumento della fiscalità sui carburanti per finanziare la “transizione ecologica”) è senz’altro di ampia portata, qualcosa che – aspetto nient’affatto secondario –mette la provincia francese contro la capitale. Parigi è oggi una metropoli abitata da una specie di neo-aristocrazia, da una élite del denaro, delle professioni e del commercio, con il suo centro di potere definito da quella “monarchia repubblicana” tipica del presidenzialismo di matrice gollista.

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Proposta di una rivista

Altraparoladi Mario Pezzella

Questo volume è dedicato a Miguel Abensour, il grande filosofo francese della politica, scomparso nel 2017. Non vuol essere solo un omaggio, ma una riflessione sulle più importanti linee di pensiero che egli ci ha lasciato in eredità. La sua opera, nonostante alcune traduzioni, è ancora relativamente poco conosciuta in Italia: noi pensiamo che i temi da lui trattati – l’utopia, il totalitarismo, la servitù volontaria – richiedano l’ora della loro leggibilità, pretendano anzi con urgenza di essere meditati, di fronte al possibile ritorno di una barbarie autoritaria e razzista. Questo volume prefigura un lavoro più generale, che prenderà probabilmente la forma di una rivista nel prossimo futuro: Altraparola. Il nostro pare uno di quei momenti della storia che Benjamin definiva col termine di “dialettica in stato di sospensione” o “in sospeso” o “sospesa”. Le forze in conflitto sono tese l’una contro l’altra in modo tale da non riuscire a prevalere o affermarsi in modo da determinare un nuovo evento, un’altra forma di vita o una decisione. “In sospeso” significa qui dunque tutto il contrario che “in quiete”, come tendevano a pensare i pensatori della fine del secolo passato che si illudevano su una fine postmoderna della storia, dei grandi conflitti e delle grandi narrazioni. Le quali sono riprese a ritmo violento (dal fondamentalismo al neofascismo) e non sono purtroppo rassicuranti. Questo non vuol dire che ricordare il pensiero il quale, nel Novecento, si è sforzato di indicare un altro mondo possibile rispetto a quello in cui ora viviamo sia inutile; ma ciò che ci interessa va estratto con cura, con un’operazione critica, da insiemi e apparati concettuali, che non possono più essere assunti nella loro interezza. Ciò vale anche per le tradizioni di teoria critica a cui siamo più legati: la Scuola di Francoforte, Benjamin, Debord e il situazionismo, Arendt, Foucault. L’orizzonte di senso della nostra ricerca è quello di un “socialismo libertario”, che pone al centro – come ebbe a definirlo Marx nei Grundrisse – la nozione di “individuo sociale”.

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Su La città polifonica di Massimo Canevacci

San Paolo del Brasile. Sul tetto del SESC 24 de Maiodi Alessandra Criconia

[Intervento alla presentazione del volume nella libreria “Todo modo” di Roma il 18 ottobre scorso]

Il libro di Massimo Canevacci La città polifonica (Roma, Rogas, 2018), di cui abbiamo oggi la seconda edizione arricchita da una nuova premessa, è un testo di antropologia urbana che tratta della megalopoli, nel caso San Paolo, dichiarando fin dal titolo la tesi che intende sostenere: la città contemporanea è una molteplicità di segni e codici comunicazionali intrecciati alle tecnologie digitali. Questa è la sua “polifonia”: essa non consiste soltanto in un insieme di beni e valori materiali e immateriali, ma, come in un cortocircuito, permette di connettere la città ipermoderna con il villaggio Bororo. Scrive Canevacci: «[…] straniero e familiare si attraversano e la comunicazione digitale connette la megalopoli di São Paulo con il villaggio Bororo di Meruri» (p. 19). Il libro è una riflessione etnografica attenta ai tempi nostri, vòlta a costruire un pensiero del presente, che può essere tale solo in quanto stabilisce un rapporto con il passato. I cinque capitoli che compongono la prima parte del volume sono così dedicati alla puntuale analisi dei “classici” (dai futuristi a Benjamin, dai surrealisti a Lévi-Strauss, arrivando fino a Bateson,) per prendere poi in esame la comunicazione urbana seguendo soprattutto le suggestioni di un antropologo della postmodernità quale Clifford Geertz e di un critico della letteratura come Michail Bachtin. Questa rilettura è la premessa del metodo sviluppato nella seconda parte del libro, che «[…] utilizza due altre voci per la rappresentazione di São Paulo: le foto e un diverso stile di scritture, [che] contribuiscono a far parlare le molteplici facce della metropoli» (p. 179).

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Per un’Europa sociale e politica

Europadi Rino Genovese

[Testo dell’intervento al convegno “Quale Europa?”, Firenze, 27/10/2018]

Se si va a vedere, non ci sono mai state le forze soggettive per realizzare l’unità europea, meglio ancora un federalismo europeo. Non c’è mai stato un blocco sociale che ha sostenuto questa prospettiva. Neppure i sindacati hanno mai realmente svolto un ruolo in questo senso. Ci sono state nella storia delle élite tutt’al più che ne hanno parlato, o ne hanno vagheggiato. È il caso, ancora nel pieno della seconda guerra mondiale, del famoso Manifesto di Ventotene. Ma se si va a rileggere questo testo non si trova alcuna indicazione utilizzabile oggi, neppure nel senso di una sua possibile rivisitazione. I suoi estensori sono critici della sovranità statale (che ritengono foriera di imperialismo e di guerre), sono contrari al collettivismo marxista, sono antiprotezionisti e libero-scambisti in economia e giacobini in politica, prendendo anche in considerazione un periodo di dittatura rivoluzionaria al momento della caduta del fascismo, che per loro, quando scrivono, è ancora lontana. Sono coerentemente elitisti, parlano di minoranze rivoluzionarie (e nel testo, pur nella critica del comunismo, c’è un apprezzamento per Lenin che avrebbe saputo imporre l’azione di un’avanguardia rivoluzionaria).

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Riconfigurare i flussi

Riconfigurare i flussi
Globali, migratori, interculturali, biologici, di coscienza
Il convegno è focalizzato sul tema dei flussi, di cui offre una lettura ad ampio raggio e di taglio
interdisciplinare: dalle dinamiche migratorie nelle loro molteplici valenze sociali, culturali e
genetico-biologiche, ai flussi politico-economici globali a quelli di pensiero e di coscienza.

Riconsiderare i flussi

Il modello Riace

Riacedi Enzo Scandurra

“[…] perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, ad eccezione dell’ulivo, della vite e del grano – autoctoni di precocissimo insediamento – sono quasi tutte nate lontane dal mare. Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l’altra. ‘Lo immagino’, ha scritto Lucien Febvre, ‘rifare oggi il suo periplo nel Mediterraneo orientale. Quanti motivi di stupore! Quei frutti d’oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti – arance, mandarini, limoni – non ricorda di averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi – agavi, aloè, fichi d’India –, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall’America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, eucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall’Australia. E i cipressi a loro volta sono persiani. Questo per quanto concerne lo scenario. Ma quante sorprese ancora al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guayana; il mais, messicano; il riso dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco’ ”1.

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QUALE EUROPA?

Quale Europa

SABATO 27 OTTOBRE
FIRENZE  SMS di Rifredi sala chalet
Via Vittorio Emanuele II, 303 tranvia I fermata Vittorio Emanuele II

h. 10.15
Saluti – Luisa Simonutti – CRS Toscana
Introduzione ai lavori

 UNIONE EUROPEA: STRUTTURA E POTERI
Erica Schiavoncini – I Pettirossi

h. 11.00
EUROZONA RIFORMABILE? L’ECONOMIA SA COME, LA POLITICA NO
Sergio Cesaratto – economista, Università di Siena
coordina Giorgio Bellucci – CRS Toscana

GLI ERRORI DA CORREGGERE DI UNA UNIONE NECESSARIA
Vincenzo Visco, già Ministro delle finanze
coordina Matteo Gorini – I Pettirossi

– Discussione

h. 13.15 – Pausa pranzo*

h.14.30
DEMOCRAZIA E DIRITTI SOCIALI. DALLA COSTITUZIONE ITALIANA
AI TRATTATI EUROPEI. UNA STRADA SENZA RITORNO?
Claudio De Fiores – Università di Napoli – Giuristi Democratici

 EUROPA SENZA SOGGETTI
Maria Luisa Boccia – Presidente CRS

PER UNA EUROPA SOCIALE E POLITICA
Rino Genovese – Fondazione per la critica sociale
coordina Marisa Nicchi – Diritti a Sinistra

– Discussione

* Il pranzo è previsto presso SMS Rifredi: euro 10, prenotare al numero 3381554489

 

CICLO DI SEMINARI SULL’INCONSCIO SOCIALE | 2018-2019

Locandina inconscio

I seminari si propongono di riflettere  sull’intersezione tra psicanalisi e politica, tra inconscio collettivo e ordine dominante, sulla
necessità di ogni forma di dominio di affermarsi non solo come regime di sovranità e di violenza, ma anche come regime del desiderio, che
conduca il più possibile a una irriflessa servitù volontaria.
In qual modo i processi inconsci del desiderio ci inducono ad accettare le forme del dominio? In qual modo possono entrare in contraddizione con
esse e sorreggere un’immaginazione utopica del futuro?

ROMA I seminari romani si terranno presso l’Università di Roma3, Dipartimento di Filosofia
(aula Matassi), Via Ostiense, 234 – Fermata Marconi metro linea B

FIRENZE I seminari fiorentini si terranno presso
la Sms Rifredi, Via Vittorio Emanuele II, 303 – Fermata Vittorio Emanuele II tramvia linea T1

Concluderà i seminari una giornata di discussione comune, presso la Sms Rifredi, Firenze.

Firenze, Mercoledì 24 ottobre, ore 15
Marx: le maschere del capitale e gli oggetti feticcio
introduce Roberto Finelli

Firenze, Mercoledì 21 novembre, ore 15
Freud e la psicologia delle masse
introduce Massimo Cappitti

Roma, Mercoledì 12 dicembre, ore 15
Jameson e l’inconscio politico
introduce Marco Gatto

Roma, Mercoledì 23 gennaio, ore15
Jung e l’inconscio collettivo
introduce Stefano Carta

Firenze, Mercoledì 20 febbraio, ore 15
Edward Said: Freud e il non europeo
introduce Daniele Balicco

Roma, Mercoledì 20 marzo, ore 15
Lacan e il discorso del capitalista
introduce Mario Pezzella

La foto: Sesc 24 de Maio

San Paolo del Brasile. Sul tetto del SESC 24 de Maiodi Alessandra Criconia

Di solito non commentiamo le foto di apertura del sito (il cui discorso si inserisce nella nostra tematica sul “diritto alla città”), ma questa volta facciamo un’eccezione. Abbiamo deciso di riprendere il tema dei centri SESC di cui ci siamo già occupati con l’articolo Sesc Pompeia di San Paolo. L’individualismo sociale in Brasile.

Sesc è l’acronimo di Serviço Social do Comércio, l’organizzazione dei commercianti che promuove la realizzazione di centri sociali multifunzionali in cui ci si reca per fare sport, mangiare, prendere un caffè, giocare, danzare, vedere una mostra, andare in biblioteca o all’emeroteca, assistere a uno spettacolo teatrale, incontrare degli amici o semplicemente trascorrere il tempo guardando dal terrazzo le cime dei grattacieli.

Da non confondersi con degli shopping center, questi centri pieni di attività, dove si trova anche un servizio odontoiatrico, sono dei luoghi di socialità solidale e, soprattutto, di riqualificazione urbana. San Paolo è una città che negli ultimi anni abbiamo visto progredire anche grazie all’azione del suo ex sindaco Fernando Haddad. In un Brasile ancora fortemente segnato dalle diseguaglianze sociali, e percorso da nostalgie autoritarie come la recente cronaca politica ci ha mostrato, i centri Sesc sono delle oasi di qualità della vita da preservare. Nello Stato di San Paolo se ne contano ben 39. Quello che si vede nella foto è l’ultimo in ordine di tempo, costruito dall’architetto Paulo Mendes da Rocha.

La rivoluzione silenziosa delle imprese recuperate dai lavoratori

Imprese recuperatedi Leonard Mazzone

A volte il meglio che la critica sociale possa fare è deporre le cornici teoriche a cui si aggrappa per inquadrare e mettere a fuoco il suo oggetto, aprire gli occhi, guardarsi intorno. Concedere al mondo che ci circonda il beneficio del dubbio, se non la possibilità di tornare a sorprenderci per le sue promesse mantenute di riscatto. Prendere sul serio ciò che sta sotto i nostri occhi, anziché assoggettare i nostri sensi e la portata di ciò che percepiscono alle rosee speranze dell’immaginazione utopica, alle rassicuranti astrazioni delle teorie normative o alla rassegnazione autocompiaciuta di diagnosi epocali troppo cupe per risultare credibili. Questo gesto potrebbe somigliare a qualcosa di diverso da una resa, se solo il punto di fuga del nostro sguardo coincidesse con quelle silenziose pratiche di ordinaria resistenza che rappresentano delle confutazioni concrete al motto ideologico che ha scandito l’immaginario sociale e politico occidentale nel corso degli ultimi dieci anni: quello secondo cui non esisterebbe alternativa alla tirannia dei mercati (e dei loro sedicenti interpreti).

Ne sono una testimonianza concreta le decine di imprese recuperate dai lavoratori dalla crisi economico-finanziaria a oggi. Designate anche con l’acronimo inglese “W.B.O.” (Workers Buyout), le imprese recuperate sono aziende (o singoli rami di produzione) rilevate dai loro ex dipendenti sotto forma cooperativistica per evitare il fallimento o risolvere problematiche connesse al passaggio intergenerazionale della precedente proprietà.

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Lezione svedese (2)

Viktor Orbán

di Rino Genovese

Mi ha fatto notare Antonio Tricomi, in una conversazione privata, che la “lezione svedese” è per lo meno ambigua: se infatti perfino dove c’è stata un’integrazione riuscita degli immigrati, grazie a uno Stato sociale di alto livello, l’estrema destra arriva al 17%, questo è un dato per nulla confortante, che fa pessimisticamente prevedere un ulteriore incremento delle posizioni xenofobe alle prossime elezioni. Inoltre, spingendo più avanti il ragionamento del mio amico, la “lezione svedese” si avvita in un circolo vizioso, è un gatto che si morde la coda: se per difendersi dalla destra estrema, sul piano europeo, si è spinti a dare ancora vita ad alleanze tra centristi conservatori (leggi Ppe) e socialisti e socialdemocratici, ciò potrà forse servire a salvare la situazione qui e ora, ma sul medio periodo – visto che l’immobilismo liberal-liberista ha favorito fin qui la crescita dell’estrema destra – questa riscuoterà maggiori consensi, presentandosi come unica alternativa “sociale” oltre che sovranista.

Il ragionamento non fa una piega. In maniera logica è la rappresentazione di un’impasse. La mia risposta, tuttavia, vorrebbe distinguere due problemi. Il primo, di fondo, è di tipo sociologico, per non dire antropologico-culturale, e ha a che fare con la domanda: di che cosa è segno il ritorno, in chiave nazional-populistica, di un’estrema destra in Europa? Anzitutto – mi sento di rispondere – del fatto che la nozione di globalizzazione, in voga soprattutto un ventina di anni fa, era sbagliata in quanto troppo sbilanciata in senso economicistico e più o meno ottimisticamente progressista. Il nostro non è tanto il tempo della globalizzazione economico-finanziaria, tecnologica e così via, quanto piuttosto quello in cui emerge con forza l’elemento d’ibridazione culturale e storico-temporale del moderno. È una questione che è stata spesso fraintesa con il termine di “postmoderno”. Non si tratta di un “post”, ma del venire in primo piano dell’intera modernità occidentale come un miscuglio di passato e presente e di culture differenti, che soltanto per un periodo tutto sommato breve, in Europa, anche in forza di uno sviluppo economico che sembrava inarrestabile, aveva trovato un suo equilibrio.

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Lezione svedese

lezione svedesedi Rino Genovese

Tra le due o tre cose che so della Svezia, c’è che questo paese, celebre per la qualità del suo Stato sociale, negli ultimi anni ha accolto ben 450.000 rifugiati su una popolazione di dieci-undici milioni di abitanti. Un mese fa a Stoccolma, in una centralissima stazione della metro, ho visto nel botteghino delle informazioni un’immigrata velata e con l’abito scuro lungo fino ai piedi tipico degli sciiti (che, per chi ancora non lo sapesse, sono una corrente dell’islam diffusa soprattutto tra Iran e Iraq). Ecco la prova di un’integrazione riuscita. La politica dell’accoglienza ha certo ricevuto un colpo dalle recenti elezioni, in cui il partito di estrema destra anti-immigrati, dal nome fasullo di “Svedesi democratici”, ha raggiunto il 17%, ma nell’insieme ha tenuto e il partito socialdemocratico, con il suo 28% (che tuttavia costituisce un record negativo), è rimasto il primo partito. La prospettiva politica che si apre adesso è quella di una probabile grande coalizione alla tedesca, con i moderati conservatori, rimasti il secondo partito al 19%, e i loro alleati minori.
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Lettera aperta al presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri

di Luca Baiada

Mi rivolgo, anche a nome della Fondazione per la critica sociale, a Paolo Pezzino, nuovo presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, già Insmli.

Sono fra Rigoli e Corliano, vicino a Pisa; qui nel 1944 fu commesso uno dei tanti eccidi nazifascisti. Oggi è un anniversario: tre quarti di secolo fa, nel 1943, gli italiani vissero il duro giorno delle scelte. Niente ordini dall’alto, e quando c’erano magari erano sbagliati, furbi, contraddittori. Una classe dirigente violenta e presuntuosa mostrò la corda, permettendo ai tedeschi l’occupazione del paese.

La Germania non paga i risarcimenti alle famiglie delle vittime dei crimini commessi in Italia, proprio dal 1943 al 1945. Però da qualche anno, con una spesa molto inferiore, finanzia iniziative culturali. La più importante è l’Atlante delle stragi, di cui Lei è il direttore scientifico.

Ho chiamato questa operazione riparazionismo perché sin dall’inizio, eclissati i risarcimenti, si è parlato di riparazione; ma si è detto anche lenimento, memoria attiva, riconciliazione, memoria comune, poi simbolo pesante. Mai giustizia, mai denaro ai veri creditori.

Sono stato sostenuto da familiari dei caduti e da giuristi. Anche alcuni storici mi hanno espresso solidarietà, per lo più in privato. Ho scritto, ho partecipato a convegni, ho sentito il calore di chi non conta niente, e altrove un gelo direttamente proporzionale al potere. Adesso, se c’è il mio nome in un incontro, personaggi influenti scrivono o telefonano di soppiatto all’ente organizzatore, preoccupatissimi.

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Lettera a Saviano sulla regressione culturale

Roberto Savianodi Rino Genovese

Caro Saviano,

è chiaro che siamo con te contro il ministro dell’interno: non possono esserci dubbi o esitazioni su questo, non foss’altro perché tu sei liberale e illuminato e lui un demagogo oscurantista deciso a lucrare elettoralmente sulla paura e l’ignoranza. Ma la ragione per cui oggi c’è così tanta difficoltà a reagire, a mettere su un vasto movimento d’opinione contro la xenofobia e il razzismo, a favore delle Ong che nel Mediterraneo salvano vite umane, è data dal fatto che da tempo siamo in presenza di una regressione culturale a sinistra, che prima ha lasciato spazio al puro e semplice qualunquismo grillino (le balle sulla democrazia diretta in rete, la polemica antipolitica intorno alla “casta”, e così via), e poi non si è ritratta neppure di fronte alla prospettiva di un governo grilloleghista (ne so qualcosa io che ho dovuto rompere con la vecchia rivista “Il Ponte”, in cui questa regressione appare adesso particolarmente evidente).

Si sta ripetendo, mutatis mutandis, in quell’area che definiamo di “sinistra radicale”, ciò che avvenne all’inizio del Novecento con i nazionalismi e i prodromi del fascismo, quando ex compagni divennero camerati quasi da un giorno all’altro, passando dall’estrema sinistra all’estrema destra. Ieri era l’insoddisfazione verso una politica riformista, quella di Filippo Turati – e poi il mito della violenza, della guerra, della conquista coloniale –, a sostenere ideologicamente il mutamento. Oggi c’è una molto difettosa costruzione europea a provocare una delusione e un’insoddisfazione che si riflettono, nelle menti più deboli, in un (ri)sentimento del “si stava meglio prima”, quando non c’era la moneta unica e si poteva svalutare a piacere, o quando non era arrivata l’ondata migratoria, soprattutto dal Sud del mondo, perché la drammatica questione postcoloniale non era ancora esplosa e la divisione del pianeta in blocchi contrapposti permetteva di tenere sotto controllo zone geografiche in seguito finite nel caos.

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Come se non bastasse

Beppe Grillodi Luca Lenzini

A parte Boris Godunov e Macbeth, tutti, in generale, hanno buona coscienza.
Vladimir Jankélévitch

E insomma non è bastato. Che nel 1994 alla carica di presidente del Consiglio sia assurto il cav. Silvio Berlusconi, padrone di Mediaset. Che un lustro più tardi (luglio 2009) il comico Beppe Grillo, raggiunta ampia notorietà grazie alla televisione e ai media, abbia fondato (non avendogli consentito il Partito democratico di partecipare alle “primarie”) il “Movimento Nazionale Cinque Stelle”, e che oggi (2018) sia giunto al potere alleandosi con la Lega di Matteo Salvini. Che quest’ultimo, ex-comunista padano la cui arte retorica si temprò ai microfoni di Radio Padania Libera, sia attualmente ministro degli Interni e vero dominus del governo. E per inciso, che nel frattempo, ovvero nel corso degli ultimi due anni, abbiamo assistito prima alla “Brexit” (giugno 2016) e poi alla vittoria di Trump (20 gennaio 2017) alle elezioni negli Stati Uniti… no, non è bastato (e neanche che all’origine della meteora-Renzi, per chi avesse così lunga memoria, vi fosse una serie di performance televisive).

Figuriamoci. Tutte coincidenze o meglio, anzi, fenomeni naturali: come la Globalizzazione. Così va il mondo, e in fondo sono cambiati i mezzi (prima radio e giornali, ora televisione e internet) ma siamo sempre nel contesto del democratico formarsi del consenso e della pubblica opinione. Tutto democratico, solo un po’ moderno. A volte ci sono incidenti, chissà come di quando in quando nascono delle “anomalie”; ma bene o male il tutto funziona e i mercati alla fine si calmano. Così a spiegare come stavano andando realmente le cose ci volle nientemeno che Fedele Confalonieri, il quale nel marzo 2017 in un’intervista al Foglio, così si espresse: “Stiamo esagerando”. Si riferiva ad alcuni programmi televisivi della propria azienda, i quali a parer suo avevano contribuito al clima populista dilagante. Lamento non senza conseguenze: l’anno seguente, dopo le elezioni del marzo 2018, non una ma ben tre figure apicali della pregiata ditta (Belpietro, Del Debbio e Giordano) furono d’emblée rimosse e sostituite; né lo stesso Cavaliere mancò di confermare la diagnosi del fedele e chiaroveggente manager, amaramente constatando: “abbiamo nutrito i populisti.” Finalmente qualcuno con le idee chiare, dunque, almeno per quanto riguarda le proprie aziende.

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Messaggio sulla letteratura che ci circonda

gruppi letturadi Filippo La Porta

Intervento stimolante, caro Rino, anche se chi volesse intervenire sulla narrativa italiana non dovrebbe affidarsi interamente e ciecamente alla mappa, pur pregevole e accurata, di Simonetti. Dovrebbe invece prendersi la briga di leggersi lui i testi (e questo è un appunto per te, caro Rino, che pure hai scritto cose penetranti per esempio su Moresco). Insomma per parlare di nuova narrativa italiana bisogna conoscerla direttamente, bisogna pur leggersi venticinque-trenta romanzi italiani all’anno (sì, sarà pure una “palla”, ma d’altronde mica è obbligatorio avere una opinione sull’argomento!). Questo almeno ebbi modo di rimproverare al (bel) libro di Ficara – Lettere non italiane – che non manteneva del tutto la promessa (assai promettente) di dimostrare perché i nuovi narratori abbiano rotto con una tradizione novecentesca (per la ragione che di italiani contemporanei lui ne aveva letti solo quattro o cinque…). Velocemente, soltanto alcune annotazioni.

1) Siamo convinti del declino inarrestabile delle patrie lettere (come del declino di ogni cosa entro un presente desolato), e che il passato prossimo fosse tanto migliore? Scorriamo i vincitori dello Strega anni ’50 e ’60 e oltre: sì, ci sono Morante, Volponi e Parise, ma i Prisco, Brignetti, Cialente, Arpino, Bevilacqua, Nievo non sono superiori – sotto qualsivoglia parametro – a Veronesi, Ammaniti, Siti, Piperno, Albinati, Starnone. Possibile che quando muore un poeta, un romanziere, un regista, etc. della generazione passata si scriva sempre che è morto l’ultimo poeta, l’ultimo romanziere, l’ultimo regista!

2) È vero, la madre degli scrittori imbecilli è sempre incinta, ma anche la madre dei filosofi, magistrati, architetti, fisici…Vuoi gli esempi?

3) La categoria decisiva in Simonetti è proprio quella del “nobile intrattenimento”, imparentata con il midcult, e peccato che non la approfondisca (mentre: chissenefrega della narrativa Ikea, di Volo e della Parietti). Dimostra tra l’altro un tuo assunto, e cioè l’attuale primato del fruitore, del pubblico. Il “nobile intrattenimento” è infatti la letteratura che corrisponde fedelmente al nuovo pubblico, alla middle class alfabetizzata, che legge per intrattenersi (si intrattiene perfino con Kafka, che giudica “intrigante”) ma anche per apparire più intelligente, per sentirsi più colta e aggiornata, per distinguersi a tutti i costi (è il famigerato “ceto riflessivo”, che, ahinoi, non è più credibile neanche quando si indigna sull’Aquarius…).

4) La letteratura come conoscenza, come conflitto, come utopia, etc. (e non consumo chic o status symbol) ancora sopravvive in molti romanzi o narrazioni “ibride”, anche se pochi se ne accorgono perché questi romanzi sono sommersi da tutti gli altri in una iperproduzione ormai fuori controllo: negli ultimi anni almeno Doninelli, Morandini, Fiore, Orecchio, Livi, Calligarich, Carraro, Tedoldi, Morelli, Sebaste, Samonà (Giuseppe), Muratori e ora l’ultimo di Piersanti (tra le narrazioni ibride includerei invece – poiché non sono affabulatori puri – Pascale, Covacich, Voltolini, Arminio, Mari e le cose più saggistiche di Tiziano Scarpa).

5) La nostra letteratura potrà migliorare se cambia il suo pubblico: perciò seguo con interesse iniziative come i gruppi di lettura e simili, dove può formarsi un lettore più esigente, consapevole e responsabile, che si ostina a chiedere ai libri qualche verità per lui preziosa (questo lettore va snidato, va cercato, va costruito, inventato se occorre…). È come per la democrazia: funziona solo se i cittadini sono capaci di badare a se stessi.

Sulla letteratura che ci circonda (a partire da Gianluigi Simonetti)

gianluigi simonettidi Rino Genovese

[Il 7 giugno scorso, organizzato da Anna Gialluca presso la sede romana della casa editrice Laterza, si è tenuto un interessante seminario intorno a un recente volume di Gianluigi Simonetti, con interventi, tra gli altri, di Walter Siti, Domenico Starnone, Andrea Cortellessa, Guido Mazzoni, Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro. Quello che segue è un mio contributo alla prosecuzione del dibattito. – R. G.]

Si dev’essere grati a Gianluigi Simonetti per il suo La letteratura circostante (Bologna, il Mulino, 2018) che ci permette di entrare nella selva della editoria italiana contemporanea, di prendere contatto con libri di cui mai avremmo immaginato l’esistenza, di addentrarci in un’imbecillità che, pur scafati, neppure il nostro peggiore pessimismo sarebbe riuscito a figurarsi. Come lettori critici dobbiamo essergli grati. Come scrittori molto meno: perché – se ancora ambissimo a esserlo – nel panorama che egli disegna non vorremmo essere inseriti, o, se un tempo lo fummo, in siffatta compagnia non è confortante essere confusi. Ci sono, nelle analisi proposte dal libro, in ordine d’insulsaggine, i politici e gli sportivi che si scoprono narratori, gli autori che sono per sonaggi televisivi (da Alba Parietti a Flavio Insinna, da Fabio Fazio a Maurizio Costanzo), i giornalisti che si danno al romanzo (magari sfruttando la notorietà televisiva), gli scrittori “giovani” o giovanilisti, i memorialisti della lotta armata degli anni settanta, gli autori di genere (un notevole studio, a tratti esilarante, è dedicato da Simonetti al “neo-rosa” che ha in Moccia il suo campione).

Dal libro si ricava l’impressione che la letteratura da cui siamo assediati sia solo un enorme megagenere editoriale; in altri termini, non esiste letteratura se non colonizzata da quelle che si possono chiamare le agenzie dell’estetizzazione diffusa, entro cui rientra a pieno titolo la maggior parte della case editrici. Si tratta delle eredi della industria culturale: se in questa si potevano individuare delle differenze di livello all’interno di una produzione “media”, se soprattutto il discorso di un autore poteva ancora introdurre il suo sassolino nella macchina, oggi, nell’editoria dell’estetizzazione diffusa, non più. Perciò il concetto di “nobile intrattenimento” (espressione che Simonetti riprende da un innominato editor che sembra avere le sembianze di Antonio Franchini, considerato nel libro a sua volta in quanto autore in proprio) diventa a dir poco problematico, sommersa com’è – la nobiltà – sotto una produzione che per contrasto, sebbene Simonetti non ricorra mai a questo termine, andrebbe definita plebea.

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Tanfo di morte

Spreaddi Luca Lenzini

Ma non così, e soprattutto: non proprio ora!… Ora, che per una volta il disco rotto della storia italiana sembrava ricominciare con una musica tutta nuova, un soundtrack strano e sublime per scenari inediti e neanche visitati in sogno: come in certi filmati di grandi tornado in terre lontane, quando tetti di case, auto e ramaglie volano via vorticando in spirali di vento rapinoso e indomabile, così pareva accadere ai discorsi dei politologi di razza, ai moniti degli insigni costituzionalisti, ai sermoni di Scalfari e alle imitazioni di Crozza: tutti scaraventati di qua e di là, in frantumi, polverizzati, stravolti, insieme ai resti di Fazio e di Vespa, agli assegni delle Olgettine e ai flyers della Leopolda… Tutto oscillava, nulla reggeva durante gli Indimenticabili Ottantanove. Qualcosa di arcaico e anteriore attraversava il paese; in uno sciame mai visto di pixel si annunciava un futuro inconoscibile, forse insostenibile ma dai riflessi così abbaglianti, così stupefacenti che d’un tratto sembrarono ridestarsi spettri dimenticati, dormienti da secoli, invendicati e irredenti. Il passato prossimo diventava remoto a velocità impressionante. Dai tetti del Quirinale e dai recessi del Parlamento fino alle più sperdute sagre della provincia viaggiavano messaggi e post che aizzavano le piazze, i Corazzieri sparivano dal set della Crisi e come in un film di Buñuel nei palazzi romani altezzosi ministri di dubbia fama, gran dame dai cognomi plurimi e tecnici di alta scuola entravano e uscivano da porte secondarie e da scuderie dismesse.

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Con Mimmo Lucano, per l’utopia concreta

Mimmo Lucanodi Marco Gatto

Siamo solo all’inizio, qualcuno dice. E non a torto. Ai toni virulenti della campagna elettorale di qualche mese fa rispondono oggi gli schiamazzi tribunizi di Matteo Salvini, nuovo titolare degli Interni, e le inconsistenze retoriche di Luigi Di Maio, capo politico dei pentastellati: da una parte, il fascio-leghismo; dall’altra parte, il grillismo qualunquista, che con il primo va tranquillamente a braccetto, dimostrando la propria mancanza di spina dorsale. Non riuscirà il premier incaricato a moderare queste pericolose emanazioni del post-berlusconismo, dal momento che e Salvini e Di Maio incarnano perfettamente lo spirito dei tempi che si è impadronito del nostro Paese. Dietro il volto apparente del governo di scopo, condito di una buona dose di ministri tecnici, si cela una non ancora meglio codificata narrazione identitaria, qualcosa che del populismo ha solo in una minima parte le sembianze. Perché più a una forma di retrivo tribalismo somiglia che a uno stile politico contrassegnato dalla semplificazione retorica di certe istanze.

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A partire da Rahel Jaeggi e dalla rivista “Consecutio rerum”

 

Discussione a più voci a partire dal volume di Rahel Jaeggi
Forme di vita e capitalismo
e dagli ultimi numeri della rivista “Consecutio rerum

21 maggio 2018, h. 17.00
Fondazione Circolo Rosselli
Via degli Alfani 101
Firenze
Partecipano:
Roberto Finelli
direttore di “Consecutio rerum”
Rino Genovese
direttore della collana “La critica sociale” di Rosenberg & Sellier
Mario Pezzella
filosofo e saggista
Marco Solinas
curatore del volume di Rahel Jaeggi
Debora Spini
filosofa della politica

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Utopia. La parola e la cosa

Angela Felicedi Antonio Tricomi

[In ricordo della nostra amica Angela Felice, direttrice del Centro Studi Pasolini, con cui la Fondazione per la critica sociale ha stabilito nel tempo solidi rapporti, ripubblichiamo qui la postfazione di Tricomi al suo volume L’utopia di Pasolini, Udine, Bottega Errante, 2017.]

È proprio come spiega Angela Felice in questo suo libro. Ha appena superato i vent’anni, Pasolini, quando, in una lettera a Luciano Serra, attribuisce a sé, e ai suoi coetanei, «una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà», cui egli si sforzerà di non venire mai meno e per il buon esito della quale giudicherà sempre cruciale il magistero di un uomo di pensiero, e in special modo del poeta, umanisticamente inteso – per dirla con Bauman – quale «intellettuale-legislatore». Per costui, all’indomani della caduta del Duce, si tratterà, nell’ottica di Pasolini, di gettare le basi culturali per quella rigenerazione anzitutto morale di cui il Paese ha bisogno dopo un ventennio di dittatura fascista ritenuto il trionfo delle onnipervasive, e grette, logiche borghesi. A repubblica istituita, l’uomo di sapere dovrà invece contribuire a rendere quest’ultima non una forma nuova, e però ugualmente asfittica, del dominio borghese, ma un’autentica democrazia, e potrà farlo accettando il ruolo di laica coscienza critica della società.

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Addio a Angela Felice

Angela Felicedi Massimo Raffaeli

[Questo articolo è apparso sul “manifesto” del 4/5/18.]

Angela Felice, mancata a Udine il 2 maggio, era una umanista nel senso più compiuto perché associava la cultura rigorosa a una passione che decenni di lavoro e di impegni istituzionali (dal 2009 era direttrice del Centro Studi “Pier Paolo Pasolini” di Casarsa della Delizia) non avevano in niente scalfito. Il suo sorriso, la sua eleganza, il profilo mitteleuropeo davano infatti una speciale luminosità alla tenacia e al suo grande fervore organizzativo. A lungo docente liceale, Angela Felice lascia una cospicua bibliografia critica, dalla Introduzione a D’Annunzio  (Laterza 1991) a numerose monografie teatrali, tra cui L’attrice Marchesa, uno studio su Adelaide Ristori edito da Marsilio nel 2006. E proprio il teatro era stato il suo amore primordiale, come testimonia non soltanto una longeva attività di critica militante al “Gazzettino” ma l’impegno diretto sia nel “Palio studentesco udinese” (una vera couche, una forgia di giovani talenti) sia nella direzione del Teatro Club di Udine.

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