di Rino Genovese
[Intervento per il convegno “Utopia, Distopia, Fantascienza” – Cagliari, 30-31 marzo 2017, Facoltà di studi umanistici, Aula 6]
Se si fosse organizzato un incontro di studi sul pensiero dell’utopia una ventina di anni orsono, saremmo andati tanto controcorrente da sembrare dei matti. Com’è noto, è stato quello il momento del suo massimo discredito. Oggi le cose stanno cambiando: una coscienza utopica si riaffaccia all’orizzonte. Un segnale di insoddisfazione, se non altro, nei confronti dell’esistente. Delineare mondi alternativi – un’attività propria della modernità occidentale – non è affatto ozioso: al contrario, è il sale da inserire in qualsiasi realismo politico, di per sé insufficiente quando si tratta di trasformare il mondo perché spinge ad attenersi ai rapporti di forza puri e semplici. L’utopia è invece quel modo di vedere le cose che rende ardimentosi i più deboli, li spinge a battersi per il «sogno di una cosa» – anche se poi il sogno non si realizza, non può realizzarsi, e pretendere di realizzarlo conduce alla distopia, cioè al rovesciamento dell’utopia (come l’esperienza sovietica ha tragicamente insegnato).
A che cosa serve allora l’utopia? Se è l’orizzonte mobile che si muove con noi, serve a camminare, a indicare la via, come ha sostenuto lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. La sua funzione non è troppo diversa da quella delle religioni – soltanto, c’è una tensione tra il millenarismo, o chiliasmo religioso, che spinge a una redenzione alla fine dei tempi e l’utopia che, progettando a grandi linee un mondo diverso, indirizza verso il cambiamento qui e ora. Essenziale, infatti, è l’innesto della dimensione utopica nel presente (qualcosa che combina insieme, come ha scritto Jameson, tempo vissuto, o esistenziale, e tempo storico collettivo). Le religioni si muovono nella direzione di un futuro lontano e imprecisato, oltremondano. Il pensiero dell’utopia, invece, verso la concretezza dell’oggi: per questo non è in contrasto con il realismo politico, piuttosto lo corregge.
Parlo dell’utopia nella sua caratterizzazione storica e politica, non di un’ontologia del «non-ancora» secondo l’impostazione di Ernst Bloch. Questa seconda non m’interessa, e non mi sembra che si possa vedere una «pulsione utopica» operante dappertutto, dal sogno all’architettura, fino alle produzioni culturali di massa. Come già Adorno aveva notato, l’utopia deve restare «negativa» (il termine è usato qui in un senso tecnico), per essa vale il divieto teologico: non ti farai alcuna immagine. Ma – e su questo punto mi distacco da Adorno – il non volere e non potere precisare i contorni dell’utopia non vuol dire che essa non sia operante nel presente: ogni rinvio a un punto di vista «altro» rispetto all’esistente è una presa di posizione nel mondo attuale, una maniera per tentare di modificarlo sia pure di poco. L’utopia è concreta in quanto serve ad aprire una prospettiva politica, ed è negativa in quanto provvisoria, sempre ancora riformulabile e in via di definizione: vorrei dire scettica, basata su un’epistemologia dello spostamento incessante del punto di vista.
Alla fine, non raggiungeremo l’«interno delle cose» (per parlare come Kant) ma ci avvicineremo indefinitamente a una coscienza adeguata della realtà solo se riusciremo a inserire nei nostri costrutti un certo grado di irrealismo, cioè di possibilità in senso utopico.