di Agostino Petrillo
Il centro storico di Genova è una realtà estremamente complessa per un insieme di ragioni materiali e simboliche: non è mai stato veramente chiaro dove inizi e dove finisca la città antica, e i confini non ne sono nettamente delineati nemmeno nell’immaginario degli stessi genovesi. Le demolizioni che si sono succedute negli ultimi due secoli hanno complicato ulteriormente il quadro che propone una città cresciuta per strati, in cui le epoche si sono sovrapposte in spazi ristretti, e le architetture si sono sviluppate spesso inglobando e ricostruendo quanto già esisteva in precedenza. Una città incalcolabilmente antica ma anche “stratificata”, dunque: il che non ha certo aiutato a determinare quali siano le parti di città da considerarsi “storiche”.
Le distruzioni del tessuto urbano sono state notevoli già nell’Ottocento, quando una parte del centro è stata completamente abbattuta, riedificata e riorientata per l’apertura di nuovi assi viari e per permettere l’irruzione di sistemi di trasporto moderni, ma sono proseguite pervicacemente anche nel Novecento fino al crescendo rappresentato dal folle piano regolatore del 1959 che, oltre a prevedere per Genova uno sviluppo demografico fino a sei milioni di abitanti, provvide anche a liquidare completamente un esteso quartiere antico, quello di Portoria, in cui c’erano edifici quattro-cinquecenteschi Al suo posto sorse una fantastica speculazione edilizia (zona Piccapietra), inno a un modernismo vacuo caratterizzato da orrendi edifici “razionalisti” ancora oggi, a distanza di sessant’anni dall’operazione, in buona parte semivuoti. Nuovamente nei Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, si è operato con la medesima logica, considerando la città antica “zona degradata”. Sventrata la storica zona di via Madre di Dio, si sono costruiti palazzi di una qualità così modesta da necessitare di continui interventi di manutenzione ancora in corso d’opera, precocemente decadenti, tali da apparire vere e proprie “rovine del moderno”.
Con simili precedenti, difficile non avere perplessità e timori ogni volta che viene annunciato un piano di vasta portata che interessa la città antica. Poco toccato dalla gentrification a macchie di leopardo che ha caratterizzato il dopo 2004, con Genova capitale della cultura, il centro storico è oggi un luogo di estrema mescolanza sociale, in cui convivono studenti, artisti, marginali, piccola criminalità e prostituzione. Giudicato un “buco nero” nella città, è stato già oggetto di interventi repressivi, con “ronde” organizzate dalla Lega, presenza massiccia di forze di polizia e per un periodo intervento dell’esercito.
Il progetto di rigenerazione urbana che questa volta è stato presentato dalla giunta (Lega+ Forza Italia) non prevede in questo caso grandi interventi distruttivi, ma cerca di accreditarsi come un rinnovamento di grande portata (137 milioni di euro) operante su più piani: da quello del restauro di alcune piazze alla creazione di uno studentato e di un albergo diffuso. Non si tratta in realtà di un vero piano organico, ma di una serie di interventi che appaiono separati tra loro e sono in buona parte ripresi da progetti già noti. Una sommatoria abbastanza confusa di proposte con cui si cerca di tenere insieme più esigenze: dare una risposta a un’annosa richiesta abitativa da parte degli studenti, facendola convivere con esigenze legate al tentativo di operare un rilancio in chiave turistica della città, “ripulendola” in vario modo. Non manca anche la tecnologia: in una zona dove per la conformazione del tessuto urbano e per lo spessore dei vecchi muri spesso non c’è connessione, la giunta pensa di introdurre fibra e 5G. Ma l’aspetto più generosamente implementato è quello sicuritario: 15 milioni di euro sono da destinarsi all’inserimento di 200 telecamere e a fornire la polizia di monopattini elettrici per muoversi agilmente nei vicoli.
Un piano che rischia dunque di essere l’ennesima fiera delle buone intenzioni e che presenta un problema di fondo, vale a dire la mancanza di interdisciplinarità. Si mescolano due culture molto diverse: da una parte una cultura di tipo tecnico-architettonica e urbanistica, che guarda al recupero e al restauro degli edifici, dall’altra una cultura che guarda al rinnovamento dal punto di vista economico e sociale. Ebbene, queste due culture non si parlano, e pesandone la presenza nel piano è evidente come prevalga decisamente la prima. Non sono presenti contributi di economisti e sociologi e la questione sociale del centro storico pare demandata unicamente alle realtà dell’associazionismo, convocate peraltro in maniera affrettata e con finalità prettamente “decorative”, mentre prevalgono le imponenti misure di tipo sicuritario. L’idea che aleggia un po’ in tutto il piano pare quella di ripulire il centro storico non solo della sporcizia ma anche della componente umana sgradita. Si ripropone, in pratica, una vecchia idea del marketing urbano e del centro storico come “biglietto da visita della città”. Ma anche per quanto riguarda il fronte turistico il piano sembra nascere vecchio, legato a una concezione pre-Covid, quando invece sappiamo bene che le città non sono cambiate solo temporaneamente e che le trasformazioni in corso modificheranno lo stesso turismo. Un’altra idea che non convince è il progetto di un albergo diffuso, soluzione che ha funzionato talvolta in alcuni borghi antichi ma sembra oggi già superata e di complessa attuazione in una città. Inoltre si ha l’impressione che la gentrification cui il centro storico ha a lungo resistito possa ricevere un impulso notevole dalla realizzazione di alcuni interventi che sono presenti nel piano, perché la valorizzazione di alcune zone può facilmente innescare un meccanismo di innalzamento dei prezzi, con esclusione e allontanamento dei più poveri proprio nel momento in cui le associazioni operanti sul territorio denunciano una situazione di crescente impoverimento delle famiglie.