di Aldo Garzia
Resta rischiosa la totale riapertura delle attività economiche e della mobilità. Bisogna provare a convivere con il Covid 19 perché l’economia e l’Italia non ce la fanno più, è stata l’obiezione a chi dubitava. Molto di quello che accadrà nei prossimi mesi sarà dunque affidato ai comportamenti individuali e collettivi, oltre che alle normative che si adotteranno. Sapremo autodisciplinarci seguendo le norme semplici di prudenza della convivenza con il Coronavirus?
L’alternativa sicurezza/libertà è particolarmente bruciante. Sapendo che in questa fase “più libertà” vuol dire “meno sicurezza” e “meno salute”. Non si scappa. Dovremo abituarci a convivere perciò con il Covid 19 e con questa contraddizione che impone inevitabilmente un ripensamento della coppia diritti/libertà. C’è tuttavia da fare i conti con la diffusa insofferenza verso le norme che consigliano il divieto di assembramento, per non parlare di quelle dei mesi scorsi: limitazioni alla libertà di movimento, distanziamento sociale, quarantena obbligatoria, lockdown. Si trattava di misure eccezionali motivate dal Covid 19 e dalla ricerca di un difficile equilibrio tra diritti individuali e diritto alla salute. Forse sarebbe meglio parlare però di “diritto alla vita” tout court. L’insofferenza verso la compressione delle libertà si spiega con la diffusa introiezione della categoria di “libertà” intesa quasi esclusivamente come problema individuale al di fuori del contesto in cui si esercita (questa volta eccezionale). È il singolo che fa problema, non la collettività, in questa nostra società dell’individuo consumatore.
Anche nel dibattito italiano ha fatto presa una concezione anglosassone delle libertà come tema che riguarda essenzialmente i singoli. Ci siamo “americanizzati” teoricamente.
Massimo Cacciari, per esempio, si è scagliato più volte in tv contro le misure di “reclusione” della fase più dura della pandemia. Su “il manifesto” si sono letti articoli da grido di allarme su misure da Stato di polizia (Giorgio Agamben, Marco Bascetta, Ginevra Bompiani). Pierluigi Battista, sul “Corriere” del 13 aprile, scriveva: “Stiamo vivendo un atroce esperimento di segregazione sociale su vasta scala: anche questo è un inedito di cui avere paura. Ma per governare la paura occorrono anche messaggi chiari, indicazioni di tappe, di scadenze che non hanno il compito di rassicurare ma almeno di identificare un percorso con una meta”.
L’elenco potrebbe continuare, tralasciando le posizioni dei “complottisti” che sottovalutano gli effetti del coronavirus. Alcune componenti della sinistra e dell’opinione pubblica sono state particolarmente anch’esse sensibili al tema sollevando problemi di costituzionalità temendo una restrizione permanente delle libertà in nome dell’emergenza sanitaria. Michelle Bachelet, Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani, ha invece da parte sua esortato a garantire un approccio basato sul rispetto dei diritti umani e ad approvare “soltanto misure proporzionate e temporanee volte a garantire il diritto alla salute a tutte e tutti, incluse le persone più vulnerabili e marginalizzate” per non fare la fine dell’Ungheria di Viktor Orbán o del Brasile di Jair Bolsonaro.
Noi italiani siamo stati lontani da questi cattivi esempi. Anzi, il premier Conte e il suo governo si sono dimostrati molto meglio in questa situazione drammatica di quanto si potesse attendere, pur se qualche incertezza si poteva evitare. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è espresso chiaramente in questa discussione: “Alcuni temono il protrarsi dei divieti, anche oltre lo stato d’emergenza attuale, quasi che questa fosse una prova generale di repressione globale, ma non è così”.
Lungi da me riproporre la vecchia diatriba tra diritti individuali e diritti sociali. La loro complementarità è un dato acquisito. Il tema che però ha posto con drammaticità il Covid 19 è il necessario ripensamento della coppia libertà/diritti individuali in un aggiornato rapporto tra libertà/diritto al welfare, in quanto salute e vita fanno parte dei beni primari ma non sono indissolubili da una idea collettiva di società. Ecco perché la convivenza con questo virus (gli scienziati ne prevedono altri in arrivo) non impone solo il riesame del modello economico capitalistico (ambiente non più come orpello). Serve pure un ripensamento del welfare e dei diritti nel welfare. La riflessione sull’individuo va perciò ricollocata in un’idea (da cercare) di nuovo Stato sociale e in una inevitabile ricerca di un “nuovo socialismo” come alternativa agli stili di vita e di consumo della società liberal/liberista.
Non avrei timore, in questa ricerca, di riscoprire la tradizione socialdemocratica europea (quella migliore di Brandt, Palme, Mitterrand, Kreisky, Zapatero) mettendola in rapporto con la altrettanto migliore tradizione del comunismo italiano (da Gramsci a Ingrao, da Berlinguer agli eretici del Manifesto). E anche il temine “socialdemocratico” andrebbe riscoperto nella sua accezione non semplicemente gradualista: capitalismo e mercato si devono regolare e umanizzare, non abolire. Occorre dunque superare le colonne d’Ercole dove Enrico Berlinguer aveva condotto il Pci (l’autonomia totale da Mosca il dialogo con la sinistra socialdemocratica europea) e far fecondare le due tradizioni che ho richiamato. Il Pd, da questo punto di visita, è un esperimento fallito. Oggi è solo un soggetto di resistenza elettorale. Serve invece una forza che faccia di un welfare rinnovato e di alternativa socialista le proprie bandiere e idee-forza. I tempi per costruirla, a meno di sorprese, saranno lunghi. Incominciamo intanto a indicare la direzione di marcia.
So bene che la problematica di un “nuovo socialismo” è attualmente minoritaria in ciò che resta della sinistra italiana. Penso per esempio al paradosso di Beppe Sala, sindaco di Milano di orientamento liberaldemocratico, che in suo libro recente si lamenta, in assoluta solitudine, di come questa discussione sia del tutto assente dal panorama italiano. La divaricazione infatti è tra un risorgente nichilismo che conquista settori della cosiddetta sinistra radicale, impotente politicamente e quindi alla ricerca di gesti o parole esemplari, e un ulteriore appiattimento senza progettualità sociale (Pd e connessi). Va condotta – si sarebbe detto una volta – una battaglia culturale contro queste due tendenze.
Sintesi finale estrema: la sinistra italiana nell’ultimo ventennio è rimasta abbagliata dalla scoperta del liberalismo, che da noi aveva scarsa tradizione, e ha finito per non pensare più al socialismo. E se invertissimo la ricerca?