La città, l’autorganizzazione, il socialismo

di Rino Genovese

Nel suo intervento sul libro di Carlo Cellamare (Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza), che si può leggere qui sotto, Massimo Ilardi compie una specie di operazione nostalgia, riportando il discorso di una critica dell’autorganizzazione e dell’autogestione odierna degli spazi urbani agli anni settanta del Novecento: in particolare alla tematica dell’“autonomia del politico”, introdotta nel dibattito da quella parte dell’operaismo italiano interna al Partito comunista con l’intenzione di orientare il movimento, dopo un decennio d’intensa conflittualità sociale, verso uno sbocco politico-istituzionale e, al tempo stesso, di fare del Pci il partito di un paradossale operaismo di governo. Il richiamo a una linea di pensiero Machiavelli-Hobbes-Carl Schmitt, con l’inserimento in essa più di Lenin che di Gramsci, apparve tuttavia a molti nient’altro che un tentativo di offrire una copertura a sinistra alla strategia berlingueriana del “compromesso storico”. Qualcosa di strumentale e di scarso respiro, entro cui la provocazione della ripresa della coppia schmittiana amico/nemico nella lotta politica, e della famosa definizione del sovrano come colui che decide intorno allo stato di eccezione, era meno qualcosa di fondato teoricamente che una strizzatina d’occhio a un’intellettualità di sinistra disposta ad applaudire ogniqualvolta fosse rotto il quadro monotono della tradizione comunista. Non era fondato, anzitutto, il paragone storico con la repubblica di Weimar (nella cui costituzione, sotto il nome di Diktaturparagraph, vigeva quel codicillo stregato riguardante lo stato di eccezione, che permise a Hitler di prendere il potere per vie legali, e attorno a cui Carl Schmitt costruì la sua teoria della sovranità) perché l’Italia degli anni settanta – pur percorsa da spinte autoritarie, dalla “strategia della tensione”, e anche da un estremismo disposto a cadere nella trappola terrorista – era una democrazia occidentale, in cui la strategia difensiva del “compromesso storico” non mirava a un’alternativa di sistema, ma a evitare una catastrofe come quella occorsa al Cile con il colpo di Stato del 1973. Neppure c’era il minimo fondamento teorico per un qualche rapporto tra l’intervento statale nell’economia, al tempo ancora in auge nella forma di un’economia mista di privato e pubblico, e l’“autonomia del politico” in quanto messa a punto di una cabina di regia tutta politica (o politico-burocratica) della società, caratteristica non delle democrazie ma dei totalitarismi.

Ciò che palesava, la tematica dell’“autonomia del politico”, era una reazione alla ormai conclamata impotenza giacobina a dirigere i movimenti di massa e i mutamenti epocali di una società pluralistica sempre più atomistico-individualistica, non culturalmente omologata (checché potesse pensarne Pasolini), legata piuttosto alle tradizioni del familismo, ma comunque sempre meno basata sull’appartenenza di classe, in cui la centralità del lavoro di fabbrica cominciava già a tramontare, nonostante nel 1969 ci fosse stata una delle più imponenti e prolungate mobilitazioni operaie e sindacali che la storia italiana abbia mai conosciuto. All’interno di questo quadro – in fondo quello della vigilia del neoliberismo, in seguito imperante a partire dagli anni ottanta –, e dentro una crisi di egemonia del Pci nel rapporto con i nuovi movimenti sociali, lo slogan dell’“autonomia del politico” avrebbe dovuto sintetizzare il programma di una rigenerazione del marxismo che lo sottraesse all’annunciato declino.

Fin da Machiavelli la teorizzata autonomia della politica dalla morale e dalla religione altro non era che la descrizione, ancora embrionale, di una nascente differenziazione della società per funzioni. Gli ambiti di un orientamento al potere (la politica), al bene o alla “vita buona” (la morale), e quello modulato sui “fini ultimi” (la religione), venivano cioè presentati come sfere sociali distinte. Il potere sovrano del principe occupa in un certo senso, per Machiavelli, il posto di comando nell’ordinamento della società, come accadrà successivamente con il Leviatano di Hobbes sulla base di un’antropologia filosofica accentuatamente pessimistica secondo la quale la natura umana, lasciata a se stessa, condurrebbe alla guerra perpetua di tutti contro tutti. La tematica dell’“autonomia del politico”, con la sua insistenza sul “dare forma alla società”, non faceva che riprendere questa concezione dei primordi dell’età moderna, coniugandola con l’estremizzazione schmittiana di una sovranità che, tramite l’invenzione di un nemico e la diffusione di una paranoia di tipo persecutorio, instaura la dittatura mediante una sorta di “incendio del Reichstag” permanente.

Con l’esclusione dei totalitarismi novecenteschi, tuttavia, la politica non è mai riuscita a ridurre a sé l’intera società; e perfino nei totalitarismi lo ha fatto in realtà soltanto appoggiandosi agli apparati burocratico e militare. Con la teorizzazione intorno alla coppia amico/nemico, il “politico” aspirerebbe ad assumere un primato all’interno della differenziazione funzionale della società: ma una politica democratica, incentrata sul pluripartitismo e sulla distinzione destra/sinistra, mal sopporta l’unidirezionalità di un “noi” versus “loro” tipica dell’invenzione del nemico e quindi della politica totalitaria (sebbene essa sia sempre pronta a sbucare fuori – ma questo è un altro discorso). Piuttosto, con la necessità delle alleanze, dei compromessi, degli scontri mai definitivi, in una democrazia è l’asse destra/sinistra a fornire la piattaforma girevole sulla quale le diverse esperienze e forze politiche si collocano. Non c’è l’invenzione del nemico per la semplice ragione che l’avversario di oggi può essere, in circostanze mutate, l’alleato di domani.

La nostalgia che traspare dall’intervento d’Ilardi è indirizzata – il che accade spesso con la nostalgia – verso qualcosa che non c’è mai stato, verso un buon tempo andato mitizzato. Nella “società borghese” è semmai la sfera economica, non quella politica, che ha teso a essere prevalente: senz’alcun dubbio al tempo della fase montante della modernità, in seguito un po’ meno (in particolare in Europa, con lo Stato sociale), oggigiorno alla maniera di quel citazionismo del passato che va sotto il nome di “neoliberismo” o “neoliberalismo economico”. Il fatto che questo sia interpretabile come un “keynesismo privatizzato” (stando a Riccardo Bellofiore) la dice lunga, però, sull’intreccio tra l’economia e la politica, chiamata dai potentati economici a intervenire non appena ci sia una crisi. In altre parole, non è che l’economia possa fare a meno del soccorso, quando necessario, che le viene dalla politica; sono forme d’intreccio tra le differenti sfere, o di mescolanza a gradazioni differenti, quelle che si danno in concreto nella realtà sociale. È l’ideologia neoliberista – nelle sue forme estreme perfino anarchiche – che pretenderebbe di fare a meno dello Stato, non il neoliberismo nella sua effettualità.

L’intervento d’Ilardi si caccia poi in una contraddizione. Egli lamenta l’assenza della politica (si potrebbe anche dire: di un partito capace di fare delle scelte tra le diverse rivendicazioni ed esperienze), e richiama Cellamare – che nel suo libro sull’autorganizzazione dell’urbano prende le mosse proprio dal riconoscimento di una crisi della politica, ponendo la questione della sua rifondazione attraverso le esperienze “dal basso” – a quella “autonomia del politico” di cui lui stesso, rimpiangendola, registra la scomparsa. Il suo monito, che non offre il minimo suggerimento riguardo a come potrebbe realizzarsi un suo ritorno, non andrebbe dunque considerato alla stregua di una predica moralistica, sia pure all’incontrario? Ammonendo Cellamare, è come se Ilardi ammonisse i movimenti, i giovani organizzatori degli spazi autogestiti, i costruttori di esperienze alternative in genere: “Non è così che si fa, cari miei”.

Ma come rilanciare la funzione della politica non nella sua pura e impossibile autonomia, quanto piuttosto nella sua impurità, si potrebbe dire, così che essa riesca a farsi orientare – e anche in parte a orientare – da ciò che accade all’interno di quel coacervo di bisogni e di problemi che, nell’accezione più ampia, chiamiamo il sociale? Ora, nel socialismo, il cui sviluppo otto-novecentesco è coevo alla nascita della disciplina detta sociologia, c’è appunto l’idea di società. Diversamente si sarebbe chiamato “politicismo”, non “socialismo”. Ha preso questo nome, invece, in quanto contestazione di un determinato assetto della società che pretenderebbe di fare delle distinzioni tra le sfere, come pure delle perdite di confini tra queste, un portato oggettivo dell’evoluzione storica: dunque contro la tendenza dell’economia a instaurare il proprio primato, e contro una politica separata dalla società nel suo insieme, pronta, con tutto il suo apparato statale e burocratico, a farsi ancella dell’economia e delle sue leggi spacciate per leggi di natura. Detto altrimenti, non c’è socialismo senza una messa in questione della politica ufficiale attraverso i movimenti sociali; e non c’è socialismo senza l’indicazione, sia pure a grandi linee, di un modo alternativo, rispetto a quello proposto dal primato dell’economia, di realizzare una (relativa) de-differenziazione delle sfere sociali. Lo Stato sociale e la dittatura del proletariato sono stati le varianti socialdemocratica e comunista – risultati storici da non giudicare, evidentemente, con lo stesso metro, e tuttavia tra loro degli equivalenti funzionali – di questa critica delle sfere differenziate dell’economia e della politica, nella realtà poi sempre tendenzialmente de-differenziate, messa in atto dal socialismo otto-novecentesco.

Si può leggere ogni statalismo come una combinazione della sfera politica con quella economica: con un diverso grado di prevalenza della politica sull’economia, che si tratti dello statalismo socialdemocratico o comunista, o perfino del corporativismo nella misura in cui questo fu una risposta al conflitto sociale (nell’Argentina di Perón più che nell’Italia di Mussolini). Se queste sono state le forme storiche dello statalismo, esse non esauriscono però in alcun modo né il concetto né la storia del socialismo: è infatti “dal basso”, dai movimenti e dalle associazioni, che proviene da sempre una carica morale, prima ancora che politica, capace di mettere in questione – come sapeva Nietzsche che la detestava – la potenza dei “forti” a favore dei “deboli”. A prenderlo nel suo insieme, allora, ciò che chiamiamo socialismo non è stato altro, nei processi comunicativi moderni, che la proposta di una de-differenziazione di segno diverso rispetto a quella guidata dalla sfera economica, secondo il combinarsi dei codici buono/cattivo-giusto/ingiusto-destra/sinistra. Il primo, buono/cattivo, ha a che fare essenzialmente con la morale, il terzo, destra/sinistra essenzialmente con la politica democratica (come già si è detto), e il secondo, giusto/ingiusto, con una trasformazione della morale da semplice ethos di una determinata forma di vita (legato agli usi e ai costumi, alle tradizioni culturali) in una tematizzazione universalizzante di che cosa sia “giusto” per principio. Al tempo stesso la coppia giusto/ingiusto apre a un passaggio alla sfera giuridica, in cui opera la distinzione formale tra il diritto e il non-diritto. Ed è proprio a una giuridicizzazione delle proprie esperienze (come del resto si rileva dal libro di Cellamare) che spesso hanno fatto riferimento i gruppi di autorganizzazione e autogestione degli spazi urbani quando si sono posti il problema di uscire dal loro semplice localismo e antagonismo. D’altronde esiste un preciso articolo della Costituzione italiana a cui agganciarsi per rivendicare il diritto all’autogestione degli spazi pubblici, o delle imprese private disertate dai loro proprietari. La ricerca di questa oasi del diritto – nient’affatto da trascurare – non dovrebbe esimere però dalla tensione verso una visione più propriamente politica. Uno slogan potrebbe essere, riutilizzando i termini suggeriti da Edoardo Salzano, “dalla civitas alla polis”: cioè dalla spontaneità della cosiddetta società civile alla questione della gestione della cosa pubblica, passando anche per la sfera giuridica ma evitando di pensare che la politica sia riducibile al riconoscimento sul piano del diritto delle esperienze di partecipazione democratica o di democrazia diretta.

Un secondo slogan potrebbe essere quello di una ripoliticizzazione della politica al di là del suo rimpicciolimento attuale. Questa sarebbe la stella polare che dovrebbe orientare i movimenti dell’autorganizzazione urbana, o della “città autoprodotta”, come la chiama Cellamare. Ma quest’obiettivo implica un di più di discernimento e di selettività. Non tutte le esperienze di autorganizzazione e autogestione vanno messe sullo stesso piano (e di ciò è consapevole Cellamare): alcune di queste hanno un carattere pervicacemente particolaristico, tendono, magari grazie a un’illegalità diffusa ma tollerata, a risolvere la questione abitativa mediante la scorciatoia dell’abusivismo, per esempio. Oppure può esserci la prolungata occupazione di un immobile da parte di un gruppo neofascista come Casa Pound (e a questo Cellamare non accenna neppure, probabilmente per non lasciarsi intralciare nel discorso da elementi di disturbo). Soltanto una forte sottolineatura della distinzione destra/sinistra – il che significa capacità selettiva di tipo politico, e perfino porsi la questione di una “politica delle alleanze” – può condurre verso quella ripoliticizzazione che i sostenitori delle esperienze di base dovrebbero augurarsi. Ciò concerne tanto l’“alto” – i poteri pubblici in genere, le amministrazioni comunali aperte al sociale – quanto il “basso”, ossia i gruppi autorganizzati. Senza una capacità di confronto e di dialogo tra “alto” e “basso” non potrebbe darsi quel di più di discernimento e selettività che in prospettiva consentirebbe, a partire dalle esperienze di base e comprendendole in un progetto più largo, una rifondazione della politica.

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