E se l’intellettuale di sinistra tornasse a preoccuparsi delle campagne?

di Stela Xhunga

Con il Covid19 ci siamo riscoperti pizzaioli, fornai, esperti di farine ben presto introvabili, con enorme fastidio di chi già si pensava novello Sorbillo. Farine lievitate di prezzo, senza che nessuno, tra i consumatori, si chiedesse: ma il grano quanto costa? Attualmente, nonostante in alcune aree del Mezzogiorno il prezzo del grano duro sfiori i 30 euro al quintale, in media non si superano i 25-26 euro. Rispetto alla media dei 20 euro degli scorsi anni l’aumento c’è stato, certo, ma nulla che possa lontanamente giustificare il raddoppio dei prezzi di vendita delle farine al minuto, nulla che possa risolversi con la solita legge di mercato per cui all’aumento della domanda il prezzo schizza all’insù.

Uno iato, quello tra gli interessi degli agricoltori e quello delle catene di distribuzione agroalimentare, destinato ad aumentare, per via di un fenomeno preciso, che si chiama speculazione. Con il blocco delle esportazioni della Russia e del Kazakistan, granai del mondo, improvvisamente ci si è accorti che affidarsi quasi solo alle importazioni (come, per esempio, con il mais, 6,4 milioni di tonnellate solo nel 2019) non è stata una grande idea. E non va meglio per la frutta e verdura – definiti di “quarta gamma” – che hanno subìto un calo di fatturato tra il 30 e il 50 per cento nelle ultime settimane, in controtendenza con il fatturato generale della grande distribuzione, compresi i discount, che, stando alle ultime rilevazioni Nielsen, hanno conosciuto incrementi di vendita a due cifre percentuali rispetto alle stesse settimane del 2019.


Si fa sempre fatica a portare la questione del capitalismo tra i campi, forse per via dell’odore di concime che non piace a nessuno, quasi che la rivoluzione, se non pranzo di gala, debba almeno rimanere urbana. E però è tra i campi che le lotte sociali possono ripartire, oggi come ieri. Carlo Pisacane era convinto che le masse del Sud potessero conferire un “impulso gagliardo” alla realizzazione in chiave socialista della rivoluzione nazionale, e lo stesso Bakunin avvertiva sull’impossibilità anche solo di immaginare in Italia una rivoluzione sociale senza mobilitare i venti milioni di proletari delle campagne e contando solo sui ceti operai urbani. Per Gramsci la questione contadina era dirimente per l’unificazione del Paese, al solito l’attualità dei suoi scritti stupisce, anche se i contadini a cui lui guardava, ai suoi tempi, erano braccianti, mentre oggi sono per lo più dei padroncini che sfruttano, tramite il caporalato ma non solo, una mano d’opera immigrata. Dunque un novello Gramsci, qualora dovesse ricomparire, non potrebbe parlare di unificazione del Paese attraverso la soluzione della questione contadina senza prima riaggiornare la riflessione intorno alle figure sociali, perché nel frattempo le carte si sono parecchio imbrogliate.

Da qualche settimana, Teresa Bellanova, ministra delle politiche agricole alimentari e forestali, non fa che ritornare sull’importanza della “lotta al caporalato mediante la regolarizzazione e poi l’agevolazione dei rientri in Italia e proroghe dei permessi degli immigrati e facilitazione delle assunzioni di lavoratori al momento inoccupati”. “Ma non avrebbe più senso aiutare tutti gli italiani che hanno perso e perderanno il lavoro per il virus, dando a loro precedenza e contratti, invece di pensare a ‘regolarizzare’ un esercito di clandestini?” le fa eco Matteo Salvini a corredo di un selfie. Entrambi, ovviamente, si guardano bene dall’ammettere che l’imminente stagione della raccolta si preannuncia catastrofica, visto che a raccogliere frutta e verdura non è rimasto quasi più nessuno. Una parte degli stranieri se n’è andata, o perché impaurita dal virus, o perché preoccupata di non ricevere assistenza sanitaria, o perché impossibilitata a utilizzare i mezzi di trasporto (dei caporali) che normalmente conducono ai campi. Questo nessuno lo dice, perché riconoscere l’insostituibilità di qualcuno costa fatica, lo abbiamo visto con i medici e gli infermieri, diventati eroi solo a tragedia iniziata.

Se c’è una cosa che il Covid19 ha già insegnato è che ogni produzione strategica va tutelata, lo abbiamo imparato con le mascherine importate e bloccate alla dogana, i respiratori insufficienti sul mercato italiano, il personale medico formato magari nell’eccellente Lombardia e lasciato fuggire in Svizzera, eccetera. “È stata distrutta la zootecnia, è scomparso il settore bieticolo saccarifero, abbiamo subìto colpi quasi mortali al settore cerealicolo mentre la frutta resta sugli alberi o viene venduta sottocosto. E potremmo continuare per ore a elencare le sciagure che vive l’agricoltura italiana”. La Confederazione Italiana Liberi Agricoltori lo denuncia da anni, eppure, fatto salvo qualche singolo episodio di particolare appeal iconografico, come gli ettolitri di latte versato in strada dai pastori sardi, la questione agricola non fa presa nemmeno sull’intellettuale di sinistra, interessato, tutt’al più, al tema del razzismo che coinvolge il bracciante immigrato.

Ciò che l’uomo bianco engagé dovrebbe iniziare a comprendere è però che l’immigrato del cui destino si è preso a cuore ha tutto il diritto di sbattersene della questione “razzismo”, preferendole addirittura una banconota da cinque euro, perché condizione necessaria al buon esito di tutte le lotte civili, compresa quella contro il razzismo, è l’affermazione della dignità salariale. La frutta e verdura a meno di 1 euro al chilo hanno un prezzo umano incalcolabile, e no, non c’entra il razzismo, o meglio, quello è secondario. Ciò che è primario è comprendere che per sgrassarsi il palato non si ha bisogno di 7 clementine a 89 centesimi, ne bastano 2 a una decina di centesimi in più, e che i centrifugati detox sono più buoni se acquistati da una filiera corta, controllata, senza che dietro ci siano invisibili che vivono in capannoni destinati a rimanere tali, a meno di pandemie che li riconsegnino all’attenzione dei media. Come conciliare il fatto che un lavoratore cassa integrato, disoccupato, licenziato, riesca a pagare frutta e verdura al giusto prezzo etico senza compromettere la propria, di economia, è infine questione collettiva che riafferma il principio per cui non si può soddisfare alcuna rivendicazione senza introdurne un’altra, perché ogni lotta ne tira dietro un’altra, come le ciliegie.

Per capire quanto le campagne possano diventare laboratori di innovazione sociale non è necessario ripescare oltreoceano i sem terra brasiliani e le dolci e nobili parole di Pepe Mujica, basta restare in Italia e ripercorrere le tappe della più grande esperienza di emancipazione avvenuta nel secondo dopoguerra con l’assalto al latifondo e con l’occupazione delle terre. Una massa sterminata di braccianti analfabeti divenne protagonista al punto da creare una nuova leva di amministratori locali, di dirigenti di cooperative e di associazioni agricole, nell’unico periodo della storia nazionale in cui il Mezzogiorno ha ridotto il divario, in termini di Pil, che lo separava dal resto d’Italia. Detto altrimenti, se c’è stato un momento in cui questo Paese ha conosciuto davvero l’unità, non è stato nel 1861, che ebbe bisogno di leggi speciali per reprimere il brigantaggio, ma nel 1946, quando si diede inizio a un ciclo di lotte sociali che trasformarono gli assetti di proprietà e di potere nelle campagne, riconnettendole alle città. “Divisi siam canaglia” recita l’inno dei lavoratori scritto da Filippo Turati nel lontano 1886, molto prima che battute da small talking del tipo “chi è la società? non esiste una cosa simile! esistono i singoli uomini e donne, e ci sono le famiglie” diventassero moneta corrente.

 

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