di Enzo Scandurra, Ilaria Agostini, Giovanni Attili
[Pubblichiamo questa sintesi del pensiero dei tre autori che mercoledì 4 marzo alle ore 18, nella sede romana della Fondazione, in via Vespucci 38, autopresenteranno il loro lavoro in forma seminariale per la serie “i nostri libri”].
Il “sistema clima” è un sistema molto complesso, caratterizzato da notevoli processi di retroazione (feedback). Il che significa che mano a mano che si sale di livello compaiono delle proprietà che non sono riconducibili alle proprietà delle singole parti. E significa ancora che tale sistema non è affrontabile con metodi riduzionisti. Di seguito si descrivono brevemente alcune questioni importanti per affrontare i “cambiamenti climatici”.
Cos’è ambiente
Prima di inoltrarci nei meccanismi che degradano il nostro ambiente, è necessario chiarire cosa significa questo termine. Convenzionalmente usiamo i termini di ambiente e natura come quasi sinonimi per indicare ciò che ci circonda e che non è ancora stato manomesso dall’attività dell’uomo o, quantomeno, che è stato preservato nelle sue condizioni quasi originarie.
Sappiamo che l’ambiente e la natura vanno conservati e difesi dalle attività antropiche perché costituiscono la risorsa più preziosa per la nostra sopravvivenza: sono l’habitat nel quale viviamo e dove si sviluppano le varie forme del vivente in tutta la loro diversità (piante, animali, esseri umani); ed è qui che si svolgono gli eventi naturali come piogge, venti, maree, e l’opera incessante di trasformazione naturale del nostro pianeta.
La storia tra l’uomo e la natura è una lunga storia di co-evoluzione dei sistemi viventi e dei loro ambienti e, al tempo stesso, di una incredibile simbiosi organica. Perché, se le attività dell’uomo trasformano la natura, anche quest’ultima non è mai uguale a se stessa. Cambia; e cambiando manda flussi d’informazione continui agli esseri viventi che a loro volta tendono a modificarla. Le due entità, uomo e natura, sono state per lungo tempo in continua evoluzione e di apprendimento reciproco. Vale la considerazione di Edgar Morin: l’uomo è 100% natura e 100% cultura, un paradosso matematico che esprime bene ciò che siamo e da dove veniamo.
Le due componenti uomo e natura sono anche parzialmente indipendenti. Per quanto riguarda la natura, i terremoti o le attività vulcaniche, per esempio, testimoniano di questa indipendenza del pianeta dall’uomo. Anche l’uomo, pur dipendendo dalla natura, se ne distacca, ora sempre più, per la sua capacità di creare sistemi artificiali (la città, per esempio) più o meno avulsi dalla natura. Lo fa usando la tecnologia a sua disposizione che, alla sua comparsa sulla faccia della Terra, era costituita da semplici manufatti o protesi meccaniche, ma che ora produce congegni sempre più sofisticati e potenti, quasi che stessimo letteralmente ricostruendo il mondo (Antropocene).
Ma riprendiamo ora la domanda posta all’inizio: che cos’è natura e che cos’è ambiente? A essere precisi, noi non abitiamo tutto il pianeta Terra, ma solo una porzione limitata di questo; ovvero, ciò che ci interessa (e che al tempo stesso costituisce lo spazio singolare che abitiamo) è la Biosfera da cui è escluso tanto il centro del pianeta quanto lo spazio fuori dall’atmosfera.
In altri termini, ciò che abitiamo è quella figura geometrica a forma di corona sferica che include la crosta terreste (suolo e oceani) e l’atmosfera tutta. Questa corona è relativamente sottile (ha uno spessore di circa 20-30 km soltanto), ed è anche detta buccia dell’arancia blu («arancia» perché la Terra ha forma sferica e «blu» perché è il colore che appare agli occhi di un astronauta che viaggia intorno al Pianeta).
Essa è costituita sia da elementi abiotici (mari, oceani, pianure, catene montuose, fiumi), sia biotici (tutti gli organismi viventi). Comprende l’idrosfera (quella parte che dalla superficie del mare arriva a circa 11 km di profondità), lo strato superficiale della crosta terrestre, detto litosfera (fino al limite inferiore delle acque di falda), e l’atmosfera, che si estende fin dove c’è ossigeno.
La Biosfera è il massimo ecosistema in quanto contiene tutti gli ecosistemi di livello inferiore e costituisce lo spazio singolare che abitiamo.
2. Formazione della Biosfera
Questa semplice definizione comporta conseguenze molto complesse e rilevanti. In primo luogo la Biosfera è un prodotto del Sole e la Terra è l’unico pianeta – almeno tra quelli che conosciamo – che ne è dotato. In secondo luogo, la nostra stessa specie, così come tutte quelle viventi, è un prodotto della Biosfera, nasce e si sviluppa nella Biosfera che assicura le condizioni di vita. Il che rende un po’ fantasiose quelle teorie secondo le quali la nostra specie sia venuta dall’esterno, da un altro pianeta.
Il processo evolutivo che ha portato alla formazione di un sistema complesso e organizzato (la nascita della Biosfera e dei primi organismi viventi) a partire dal mondo prebiotico è durato centinaia di milioni di anni ed è avvenuto attraverso una serie di eventi successivi che, dopo un numero elevatissimo di tentativi (falliti), hanno portato a sistemi progressivamente più complessi. Molti scienziati hanno tentato di simulare in laboratorio le condizioni originarie che hanno prodotto le prime forme viventi, ma le cause e le concause che le hanno generate sono troppe e troppo complesse, tali da vanificare ogni tentativo. Resta il fatto che la comparsa delle prime forme organiche prodotte da materia inorganica si è sviluppata secondo una modalità che resta ancora, in parte, misteriosa.
Nel periodo che va dai 3,9 ai 2,5 miliardi di anni fa comparvero gli antenati delle attuali piante, le alghe azzurre, cianobatteri che cominciarono a praticare la fotosintesi, assumendo così un ruolo fondamentale nell’evoluzione biologica della Biosfera. Successivamente, molti milioni di anni dopo, sempre per fotosintesi, si svilupparono le piante e con esse le grandi foreste che iniziarono a liberare ossigeno e a sottrarre anidride carbonica, fino a portare la composizione dell’atmosfera a quella attuale, ovvero 78% di azoto, 21% di ossigeno e altri gas come il biossido di carbonio (anidride carbonica), il neon, l’elio e l’ozono.
L’ozono e l’anidride carbonica presenti nell’atmosfera, risultarono essenziali per la produzione e la riproduzione della vita. L’ozono impedì ai raggi ultravioletti provenienti dal Sole di giungere sul pianeta elevando una barriera protettiva e impedendo a questi ultimi di bruciare tutto quanto avessero raggiunto. L’anidride carbonica presente nell’atmosfera impedì ai raggi solari di rimbalzo dalla terra di uscire solo in parte da essa scaldando di conseguenza il pianeta e rendendo stabile la sua temperatura (effetto serra).
Possiamo affermare già da ora che il carbone e il petrolio rappresentano sacche interne del pianeta, esterne alla vita, di carbonio ridotto, quel carbonio in eccesso che avrebbe reso impossibile la vita a causa di un eccessivo incremento dell’effetto serra. Dunque, adoperare i fossili, come stiamo facendo, è come se gli abitanti di una città prendessero i rifiuti raccolti in milioni di anni, sotterrati sotto la crosta terrestre, e li avessero in un sol giorno buttati per le strade, ovvero invertendo il ciclo del carbonio e incrementando l’effetto serra.
3. Entropia
I mutamenti climatici non sono esclusivamente attribuibili all’immissione antropica di anidride carbonica, c’è un altro aspetto del problema spesso oscurato. I processi economici di produzione sono tutti irreversibili; ciò significa che essi fanno crescere l’entropia del pianeta (secondo principio della termodinamica), ovvero producono scarti e inquinamento solo in parte riciclabili, a meno che non si creda al moto perpetuo (abbandonato definitivamente nel 1775 quando l’Accademia di Parigi deliberò di non prendere più in considerazione nessuna proposta o progetto tendente a realizzarlo). Detto in breve, a ogni trasformazione energetica corrisponde una diminuzione dell’energia ancora trasformabile. Questo non significa che bisogna abbandonare la scienza, i sistemi produttivi, ma scegliere solo quelli compatibili con i flussi di materia ed energia a bassa entropia (per es. il Sole). E questo rende le cose ancora più complicate.
La legge dell’entropia è inesorabile. Ci si conceda di fare un esempio poco scientifico: se un uovo sano cade in terra sarà molto difficile (praticamente, e non teoricamente, impossibile) ricostituire l’uovo sano a partire dai suoi resti sparsi sul pavimento. La sostenibilità totale è dunque una chimera. Possiamo semmai (ed è questo l’obiettivo) passare da un modello (come l’attuale) insostenibile a uno più prossimo alla sostenibilità (il che non sarebbe poco).
4. La finalità cosciente
Ora, dicono gli esperti, siamo nell’era dell’Antropocene, ovvero siamo noi a cambiare le caratteristiche del pianeta che ci ospita, col risultato, ipotizzabile, di provocare un brusco cambiamento del suo equilibrio (della Biosfera, s’intende) che comporterebbe non la fine del pianeta, ma quella di gran parte dei suoi viventi, specie umana compresa.
Se davvero vogliamo uno sviluppo che tenda alla sostenibilità, dobbiamo riallinearci con la natura prima che sia troppo tardi e la tecnica, che pure può aiutarci in parte a farlo, non può risolvere da sola i problemi che essa stessa ha prodotto nel corso degli ultimi cento anni, ovvero occorre abbandonare la finalità cosciente che caratterizza il pensiero umano.
La soluzione risiede in noi stessi, non solo nel modo di produrre e consumare, quanto piuttosto nel modo di pensarci, noi nel mondo e noi con noi stessi e le altre specie viventi, un modo di pensare e vivere con la natura considerandoci parte di essa e non esterni ad essa e tanto meno suoi dominatori, come la rivoluzione scientifica del Seicento (Galilei, Bacone, Laplace, Cartesio) ci ha abituati a pensare.
Faremo un esempio tirando in ballo una famosa poesia di Samuel Taylor Coleridge (1798), La ballata del vecchio marinaio (The Rime of the Ancient Mariner). La ballata racconta la storia di un marinaio che durante la navigazione uccide un albatros ritenuto un uccello sacro. Sulla nave si abbatte una maledizione: muoiono tutti i marinai tranne “il vecchio marinaio” condannato a espiare il suo delitto portando al collo il cadavere dell’animale ucciso. La nave è condannata a non approdare a nessun porto; nel frattempo, il marinaio diventa vecchio. Ma un giorno osservando la bellezza delle creature marine, si commuove e il maleficio si interrompe: l’albatro cade ai piedi del marinaio per poi scomparire nelle acque.
Lo stupore e la commozione del vecchio marinaio sono qualcosa di inaspettato rispetto alla logica del finalismo e del tecnicismo. Se quella maledizione fosse accaduta ai tempi nostri si sarebbe consigliato al marinaio di imbarcarsi su una nave e appena scorti i serpenti marini chiedere loro perdono per espiare il senso di colpa. Ovvero una scorciatoia dettata da una finalità estroversa con il solo scopo di far cadere l’albatro dalle sue spalle. In realtà la benedizione del marinaio (rivolta ai serpenti marini) appare piuttosto un’esperienza non premeditata, ovvero un’azione che coincide con una scoperta, con una meraviglia non pianificata.
Qualcosa che ha a che vedere con il “sacro e la sacralità” della natura, che non può essere conosciuto intenzionalmente, ma solo ri-conosciuto e accettato con umiltà. L’atto della benedizione inconsapevole guarisce la visione finalistica del Vecchio Marinaio e la sua colpa. In qualche modo l’abbandono della finalità cosciente è qualcosa che può essere scambiata con l’empatia più profonda senza pensiero. Non è a caso, forse, che questo sentimento lo abbia provato una ragazzina, Greta Thunberg, affetta dalla sindrome di Asperger.
Secondo Marcello Cini, tre sono le ragioni che rendono drammatiche le conseguenze di queste ristrette visioni finalistiche. In primo luogo il costume proprio dell’uomo di cambiare il proprio ambiente piuttosto che se stesso. Questo produce ecosistemi artificiali tagliati fuori dalle catene di autoregolazione proprie degli ecosistemi naturali. In secondo luogo la crescente velocità di cambiamento del rapporto tra finalità cosciente e ambiente. In terzo luogo la sostituzione delle finalità coscienti degli individui con le finalità proprie di entità non umane (partiti politici, sindacato, compagnie finanziarie, nazioni, ecc.). Il risultato è, secondo Bateson, che “l’uomo cosciente […] è ora pienamente in grado di devastare se stesso e il suo ambiente con… le migliori intenzioni coscienti”.
Dunque, potremmo concludere che quando la specie umana prende certe scorciatoie (per esempio fa troppo uso di certe tecnologie) per allontanare i danni ecologici da essa stessa prodotti, non serve fare certi sacrifici, richieste di perdono tardive per tentare di placare il dio ecologico perché questi è incorruttibile e non lo si può beffare.