Contro i fantasmi

di Luca Baiada

Gli interventi al convegno del 7 marzo scorso, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, sono tutti sul canale Youtube del Senato (https://www.youtube.com/watch?v=gpDYeJPX4gU). Ma qui è bene riprendere il discorso, con una premessa. È importante che la questione dei risarcimenti, e delle furberie tedesche per non pagarli, sia arrivata in parlamento. Fino a ora, la sede parlamentare col migliore approfondimento era stata il Bundestag, con un numero di interrogazioni triplo di quello nelle Camere italiane.

Centrale la questione dell’effettività della tutela legale. Esecrare i crimini nazifascisti non basta. Affermare la giurisdizione nei confronti degli Stati quando commettono gravi violazioni, neanche. Pronunciare condanne va un po’ meglio. Ma non ci si può fermare alle pronunce: occorre eseguirle.

Robusta la denuncia del formalismo giuridico, perché sorregge i tentativi di svuotare di contenuto l’ottima sentenza della Corte costituzionale del 2014, favorevole alle decisioni giudiziarie contro la Germania. Tullio Scovazzi: «Questi tecnicismi giuridici, queste sottigliezze giuridiche offendono la sofferenza delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani. […] Se non c’è immunità degli Stati, anche uno Stato che sia soccombente in una sentenza deve essere obbligato a dare esecuzione alla sentenza stessa». E Giuseppe Tesauro: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose».

Insomma, non si possono più sentire distinzioni furbe e interpretazioni astruse, come quelle che arrivano ad ammettere che si possa condannare uno Stato, in questo caso la Germania, ma poi escludono che si possa davvero eseguire la condanna sui suoi beni. Ancora il presidente emerito della Consulta: le vittime che hanno diritto al risarcimento «che se ne fanno, di questo diritto, lo mettono al muro, fanno un bel quadro per guardarselo, oppure possono farlo valere davanti a un giudice?».

Valide, perciò, anche le parole della presidente Alberti Casellati: «Necessità di dare piena effettività ai pronunciamenti giudiziari, sia per l’esecuzione delle sentenze sia per la liquidazione dei risarcimenti». Risarcimento! La parola a cui Berlino preferisce da anni riparazione, lenimento, memoria attiva, è entrata a Palazzo Madama. Solo parola, è vero. Eppure, in certi contesti, sembra tabù.

Al riparazionismo, appunto, manovra opaca di carattere politico-diplomatico, avallata nel 2008 dal vertice italo-tedesco Berlusconi-Merkel a Trieste (niente alle famiglie delle vittime, qualche soldo tedesco per prodotti culturali e monumenti), è caduta la maschera: se la Germania paga cose così, è perché – grazie a condiscendenze italiane – versa quelle somme invece dei risarcimenti, non in più.

Il riassunto migliore dell’operazione configurata a Trieste l’ha fatto Tesauro: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime. […] Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione». E sui cavilli giuridici tedeschi, specialmente contro i diritti dei prigionieri militari, è stato chiaro: «Una truffa bella e buona, io sono di un paese civilissimo, al confronto».

Condivido e provo a tradurre: i magliari napoletani nella Germania del dopoguerra erano onesti, al paragone. E non affamavano il cliente, anzi lo facevano anche divertire. Magari le maglie erano di lana caprina, ma lo sono di più le motivazioni inventate per negare i diritti ai deportati.

Il processo alla Corte internazionale di giustizia, 2008-2012, è stato contestato sotto molti aspetti, a cominciare dal fatto di averne accettato l’avvio senza obiezioni (Tesauro: «L’Italia non ha contestato questo: sempre l’Italia con entusiasmo, in ginocchio ma con entusiasmo»). Le critiche sono state precise sul contenuto e sulla decisione, che si smarrisce persino nella torsione giuridico-etica di dar torto all’Italia e allo stesso tempo rendersi conto dell’ingiustizia dell’esito del giudizio, auspicando nuove trattative.

Un cenno alla vicenda di Villa Vigoni – l’immobile a Como oggetto di ipoteca e poi di una lunga controversia – perché ci voleva, è una tappa obbligata del discorso. Ma si è ricordato che non è il solo bene aggredibile, in Italia, di proprietà di Berlino; e poi che va considerata, per i crediti da deportazione, la possibilità di esecuzione civile sui beni delle imprese tedesche che si servirono del lavoro coatto.

Comunque, quanto alla Villa di Como, Tesauro vi alloggiò durante un convegno, molti anni fa, e la notte sentiva rumori misteriosi: «Forse non è escluso che ci siano dei fantasmi; ma quello che è da escludere è che questa villa bellissima sia un bene funzionale all’esercizio indisturbato della potestà di governo della Germania. Insomma, è un po’ una truffa questa di Villa Vigoni, è peccato che abbia trovato molti ascoltatori questa tesi, basta andarla a vedere, a toccare con mano o addirittura a dormirci, se uno ha la pazienza di stare insieme ai fantasmi». Anche Scovazzi ha confermato che Villa Vigoni è utilizzata per attività culturali, non per attività diplomatiche o comunque indispensabili ai poteri dello Stato tedesco.

In definitiva, nel convegno il ragionamento giuridico è andato di pari passo con l’impegno, anche etico e politico. Perché applicare le regole della responsabilità civile non sempre realizza uno scopo nobile, ma nel caso di questi risarcimenti sì, e attua la Costituzione. Senza sostegno popolare, la Resistenza avrebbe trovato un terreno impraticabile; se i prigionieri militari avessero accettato in massa l’arruolamento coi tedeschi e coi fascisti, l’Italia avrebbe avuto un destino diverso. Quindi le comunità colpite dalle stragi e i deportati hanno avuto un ruolo, umile e non abbastanza riconosciuto, nella costruzione dell’Italia democratica. Per sostenere la giustizia effettiva, che spetta loro a buon diritto, sono necessari tutti i passi tecnici, a cominciare da un censimento dei procedimenti civili pendenti; mentre adesso l’ente più informato sui processi italiani, in Italia, è l’Ambasciata tedesca.

Su questo, e sull’attivazione dell’Avvocatura dello Stato in difesa della Germania nei processi, contro le famiglie delle vittime, Domenico Gallo: «È importante che la lotta per la giustizia, che è in atto in Italia in tanti modi, prosegua e superi gli ostacoli che capziosamente vengono posti dalle cancellerie. Una volta tanto l’Italia dovrebbe essere orgogliosa dei suoi giudici, e non dovrebbe cercare di ostacolarli come sta facendo attraverso l’Avvocatura dello Stato e altre azioni».

Al convegno, Liliana Segre ha consegnato una morale vivificata dallo scandalo, quello di oggi, e persino autocritica: «Come fanno i religiosi a tacere, come fanno i capi di Stato a tacere? Come fa tutto il mondo a tacere? E devi anche assistere, diventata vecchia – dopo aver già sopportato, dopo aver sopportato te stessa per tanti anni, dopo essere anche abbastanza guarita nelle ferite – rivedere che non solo l’Armadio della vergogna è rimasto lì, mezzo aperto e mezzo chiuso, ma che si riapre un’altra vergogna, del detto e non detto».

Le sue parole fanno rifluire tutto, anche vittima e assassino, nella necessità di un senso che resta a chiave aperta: «Ed ecco che è difficile, così, superstiti e carnefici che stiamo morendo tutti uno dopo l’altro – per forza di cose, è il calendario, non è che siamo diversi dagli altri – e allora ti domandi: perché? È quel perché che non mi ha mai lasciato. È stato quello stupore per il male altrui, di cui parlo sempre quando parlo ai ragazzi». Compresenza di etica, consapevolezza e pienezza della storia. È medicina, balsamo per sciogliere le orecchie sorde del cinismo notabilare, compreso quello giuridico.

Soprattutto, per la Segre, si staglia l’esigenza di contrastare la strage morale, quel danno profondo che va oltre lo sterminio, perché offende i vivi, i nati dopo, costringendoli a una deprivazione culturale e sentimentale, a un’insensibilità in cui il giurista troppe volte scivola per primo. Lo stupore per il male altrui fa restare nella vita senza imbrattarsi col peggio: la colpa resta in capo all’assassino, l’innocente si slancia verso le generazioni successive. Così dovrebbe essere il lavoro giuridico, impegnato a ricucire gli strappi accettando il rischio di pungersi le dita.

Insomma, un convegno da cui ripartire. Con entusiasmo ma non in ginocchio.

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