di Roberto Finelli e Tania Toffanin
Abbiamo pensato di scrivere insieme qualche riflessione su quanto Giorgio Agamben e Massimo Cacciari hanno pubblicato il 26 luglio scorso sul sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici (A proposito del decreto sul “green pass”). Ci sembra infatti utile fare chiarezza sullo spirito del tempo, di cui gli autori citati appaiono essere solo l’epifenomeno più vistoso e culturalmente accreditato. Vogliamo provare brevemente a comprendere cosa ci sia dietro una tale rivendicazione di libertà individuale, sottratta a ogni condizionamento e mediazione con la libertà collettiva, in questa richiesta verosimilmente dimentica della definizione data, ormai molto tempo fa, da Franco Fortini, secondo cui “la mia libertà inizia, non dove finisce, ma dove inizia la libertà dell’altro”.
Il dibattito che l’obbligatorietà della certificazione verde ha aperto si situa, peraltro, all’interno di uno scenario internazionale che impone alcune ulteriori riflessioni. Pensiamo che tale dibattito sia fondamentalmente centrato sui diritti individuali, all’interno di un contesto nel quale le libertà individuali sono pienamente garantite. Per contro, quanto sta succedendo in Afghanistan impone di riflettere, a partire proprio dalle libertà individuali, in termini non più strettamente eurocentrici. Sforzo questo che pensiamo sia necessario per uscire dal provincialismo del dibattito italiano ed europeo in tema di diritti fondamentali e libertà personali.
L’impianto accusatorio che sostiene la vasta schiera di coloro che si oppongono all’introduzione della certificazione verde poggia in buona misura sui concetti di limitazione della libertà personale e di discriminazione. Nei suoi vari scritti Giorgio Agamben ha sollevato non tanto questioni di legittimità formale ma di natura sostanziale dei dispositivi, a suo dire “protettivo-repressivi”, messi in campo dalle istituzioni governative. Con Cacciari, poi, egli ha sostenuto l’equivalenza della certificazione verde (che ricordiamo essere altro rispetto a una mera certificazione vaccinale, poiché prevede anche la negatività al test in assenza di vaccinazione, e su questo è stata creata una confusione ad hoc) con pratiche discriminatorie consolidate all’interno di Stati, come Cina e Unione Sovietica, che hanno fatto del controllo della popolazione uno strumento organico di governo del territorio. Boutade, tuttavia, che non solo richiama quelle rappresentazioni che sono frequentemente utilizzate dalla destra conservatrice e liberale per osannare gli imperativi del mercato e invocare l’arretramento dello Stato, ma che con la pandemia non ha alcuna congruenza. L’equiparazione di alcuni dispositivi di controllo della popolazione, utilizzati in epoche passate, con quelli adottati dopo lo scoppio della pandemia è solo funzionale, crediamo, a preordinare il discorso anticipandone le conclusioni: “stiamo preparandoci a un regime” (Cacciari), nel quale “la tessera verde costituisce coloro che ne sono privi in portatori di una stella gialla virtuale” (Agamben).
Secondo i due autori la certificazione decisa dal governo funzionerebbe da dispositivo di controllo funzionale alla politica per discriminare, e quindi differenziare, la cittadinanza sulla scorta dell’adeguamento a quanto previsto dal piano vaccinale. Cacciari giunge ad ampliare quanto enucleato sommariamente da Agamben, fino ad articolare una critica serrata alla decretazione che, facendo ricorso alla formula dello stato di emergenza, rappresenterebbe di fatto una sospensione della democrazia. Per articolare la critica allo stato di emergenza e alla conseguente sospensione della democrazia, Cacciari richiama la (tanto bistrattata) Costituzione per ribadire che i limiti sanciti dagli articoli 13, 16 e 32 in tema di inviolabilità della libertà personale, di restrizioni alla circolazione e di obbligo ai trattamenti sanitari non sono mai stati definiti in termini formali. Questa indeterminazione, secondo Cacciari, avrebbe lasciato ampia discrezionalità al governo italiano di legiferare riducendo, se non sopprimendo, l’autonomia individuale in nome di una eterodirezione imposta da uno stato di necessità e urgenza mai chiaramente definito.
La questione centrale, a nostro avviso, non è l’attacco all’operato governativo in nome di un’astratta idea di interesse collettivo da tutelare, per la quale qualsiasi disposizione normativa sarebbe accettabile. Ci mancherebbe: il governo italiano ha gestito in modo del tutto criticabile i tempi, gli strumenti e le risorse per il contenimento della pandemia! Ma questa è un’altra storia e richiede un esame specifico dei dispositivi messi in atto, del rapporto tra governo centrale e regioni, e delle risorse (troppo scarse) impiegate nel settore sanitario. L’iniziativa legislativa governativa sta dentro un quadro ormai storicizzato del quale occorre tenere conto. Abbiamo forse scoperto con la pandemia l’abuso della decretazione d’urgenza? L’emanazione di decreti che hanno valore di legge ordinaria è prevista dall’art. 77 di quella stessa Costituzione che più volte Cacciari richiama. Essa è prevista in casi straordinari di necessità e di urgenza. Sappiamo che, dagli anni Ottanta, l’utilizzo dei decreti legge è aumentato in modo crescente, anche per regolare questioni che necessitano della discussione parlamentare. L’utilizzo della decretazione d’urgenza da parte del governo nella gestione della diffusione pandemica non è una questione preminente, a nostro avviso, se davvero intendiamo prendere in esame la posta in gioco.
Le questioni essenziali sono altre e hanno tutte a che vedere con la materialità dei processi in atto. Si sostiene con forza, per esempio, il diritto all’autodeterminazione sanitaria, ma non si evidenzia con pari vigore che questo diritto può essere esercitato solo in quanto è data la possibilità di scegliere tra il ricorso alla vaccinazione o alle cure e il non ricorso ad esse. Serve forse ricordare che il prolungamento delle restrizioni alla mobilità è stato necessario a causa della rapida saturazione delle terapie intensive, prodotta da anni di mancati investimenti in nome del contenimento della spesa pubblica. I numeri del sistema sanitario italiano appartengono alla categoria dei fatti. Su questi serve muovere critiche incisive e circostanziate, e servirebbe poi un’azione rivendicativa. Finora entrambe sono state ancora molto modeste, quindi del tutto inadeguate a rivendicare quelle risposte ai bisogni fondamentali di tutti e tutte in fase pandemica e fuori dalla pandemia. È fondamentale, infatti, avere contezza dello stato del sistema sanitario – dell’organizzazione delle strutture ospedaliere, in primis della capienza e della dotazione delle terapie intensive, ma anche della medicina di base – e comprendere come la nuova malattia lo abbia intaccato. Come sarà gestito in futuro il rapporto tra governo centrale e regioni, che non poco ha contribuito ad allentare la stretta sulla diffusione pandemica? Quali e quante risorse sono state assegnate alla ricerca scientifica? Quali e quante alle retribuzioni del personale sanitario? Dobbiamo attendere un eventuale altro evento pandemico per avere risposte a questi legittimi quesiti?
Il buono stato di salute del sistema sanitario è la precondizione per allargare in termini sostanziali e non solo formali la sfera dei diritti, per ampliare quell’autodeterminazione alla quale Agamben e Cacciari fanno continuo riferimento. L’autodeterminazione è un bene cruciale. Essa però va considerata sulla base delle condizioni oggettive che la promuovono, non analizzando solamente i dispositivi che la limitano. E qui veniamo al punto dolente. C’è infatti una questione che negli scritti di Agamben e Cacciari è elusa. Chi può esercitare il diritto di non sottostare al piano vaccinale e in quali condizioni può farlo?
A noi sembra che l’approccio dei due riproduca quell’eurocentrismo tanto debole, quanto inservibile, per spiegare la complessità attuale, ma anche inadatto a proporre soluzioni capaci di non discriminare e non creare nuove divisioni tra coloro che possono utilizzare servizi sanitari qualificati e in tempi celeri, e coloro che devono accontentarsi della disponibilità contingente con lunghi tempi di attesa. Dove sta l’eurocentrismo di Agamben e Cacciari? Proprio nell’espressione di quella che considerano una forma di stigmatizzazione via legis. Non sono forse altre le forme fattuali della discriminazione nel nostro paese e non solo in questo? Classe, genere e razza sono forse categorie superate nelle riflessioni riguardanti norme e pratiche discriminatorie? In quali termini la pandemia coinvolge la popolazione mondiale sulla base di un’analisi di classe, di genere e di razza? Vogliamo chiedercelo, o pensiamo davvero che la pandemia, come tutte le patologie, agisca su tutte e tutti allo stesso modo? O forse la discriminazione di cui si preoccupano Agamben e Cacciari vale solo per i maschi adulti, bianchi e di classe agiata? Ancora: la pratica discriminatoria, che sarebbe inflitta dallo Stato all’individuo, in quali termini si pone di fronte all’interesse collettivo? Chi sarebbero dunque quei “tutti (che) sono minacciati da pratiche discriminatorie” richiamati nelle righe apparse nel sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici? Non c’è mai un richiamo alla collettività in Agamben e Cacciari. Il perno delle loro invettive è l’individuo e il presunto attacco all’autodeterminazione individuale.
Questa pandemia sta sollevando molti interrogativi, di portata anche radicale, rispetto ai nostri stili di vita e di consumo, al rapporto con il territorio e – da ultimo ma non per ultimo – al rapporto tra produzione e riproduzione sociale. Le riflessioni di Agamben e Cacciari sono, in questo senso, del tutto superate dagli eventi. Ci riportano indietro di mezzo secolo, al tempo in cui era egemone il paradigma della crescita illimitata e, con esso, l’idea di potersi rapportare alla natura e all’ecosistema in modo del tutto dispotico. Il loro discorso rispecchia la schizzinosità di una classe agiata abituata al benessere assicurato da uno Stato sociale che, nonostante i ripetuti attacchi, ha però garantito la copertura universalistica del diritto alla salute.
Sappiamo, del resto, che così non è in molte altre aree del mondo. La capacità di relativizzare la propria condizione è parte essenziale di quello sguardo comprendente che dovrebbe emergere in situazioni come quella attuale, nella quale siamo chiamati e chiamate a interrogarci profondamente non su quanto la nostra libertà sia limitata e messa in pericolo dall’incipiente deriva securitaria in nome del controllo sanitario, ma su quanto dobbiamo impegnarci per aumentare lo spazio della giustizia sociale.
La pandemia ci ricorda che abbiamo dei limiti fisici e conoscitivi, e che abbiamo contribuito in modo straordinario alla loro espansione disinvestendo nella ricerca scientifica e nella strutturazione di un corretto rapporto con la scienza. Investire nella conoscenza dell’eziologia e della patogenesi delle malattie è addebitabile alla “governamentalità” o non piuttosto alla cura del benessere collettivo?
Più in generale, va detto che Agamben e Cacciari sono da sempre pensatori dell’altrove, vale a dire che pensano e parlano da un altro mondo, lontano da quello della gente comune, e partecipano dunque per definizione di una cultura degli áristoi, dei migliori, che, in base all’ispirazione di Nietzsche, li abilita a essere superiori e indifferenti al sentire delle masse. Agamben, almeno dalla pubblicazione di Homo sacer, ci ripete infatti che la realtà in cui viviamo è quella del “campo”, cioè del campo nazista di concentramento e di sterminio, poiché da decenni saremmo in uno stato permanente di emergenza, o di eccezione, che consente al potere dello Stato e delle istituzioni di fare strage dei diritti in cambio del mantenimento e della protezione della “nuda vita”. Per consentirci di continuare a vivere, o meglio solo a sopravvivere – nei termini di una “nuda vita”, appunto, unicamente biologica o animale –, lo Stato democratico, attraverso una continua legislazione di emergenza, ci spoglierebbe di tutti gli altri diritti che consentirebbero di vivere una vita culturalmente e socialmente dignitosa, e ci sottoporrebbe alla disciplina di una biopolitica che invade e controlla autoritariamente ogni nostro spazio esistenziale.
Così sono l’altrove, il fuori, per Agamben, il principio e il luogo originario del potere politico nella società, stando alla lezione teorica del filosofo nazista della politica Carl Schmitt, secondo cui la fonte del potere starebbe in chi, collocandosi all’esterno delle norme costituzionali, sia in grado di proclamare lo stato di emergenza sospendendo le regole della socialità ordinaria; cosicché il potere statuale non nascerebbe da patti e convenzioni tra parti sociali, mediate attraverso le loro rappresentanze, com’è accaduto nella maggior parte delle costituzioni della modernità, ma da colui che è in grado di porre e imporre una “decisione”. Una filosofia dell’altrove, quella che motiva il discorso di Agamben, anche perché, a quanto pare, gli è rimasta del tutto ignota la lezione di Karl Marx sulla forza-lavoro quale vera e reale “nuda vita” della società capitalistica moderna, in quanto originariamente astratta da ogni possesso e uso del mondo-ambiente e in quanto obbligata, come sua forma propria e continua di esistenza, a erogare lavoro astratto, normato e impersonale, nei luoghi della produzione.
Allo stesso modo Agamben appare estraneo a qualsiasi seria frequentazione di filosofie dialettiche, non essendo mai stato in grado d’intendere come il potere della società capitalistica stia in una dialettica di essenza e apparenza, ossia nella capacità di dissimulare rapporti di feroce diseguaglianza e di sfruttamento (nella profondità dell’essere sociale) attraverso relazioni, invece, di eguaglianza sulla superficie dell’azione sociale, regolate dalle libertà, universali per tutti, di essere soggetti sia del diritto sia del mercato. E che quindi il dominio del capitale come soggetto tendenzialmente totale e onnipervasivo della società contemporanea abbia come fondamento primo – da cui derivano poi tutte le altre articolazioni di potere – l’operare di una ricchezza accumulativo-astratta, dis-umana, che dissimula i protocolli del suo agire, attraverso la messa in scena di soggetti capaci di autodeterminazione e di libertà di consumo. Quanto più Agamben è lontano da ogni cultura della differenza dialettica, tanto più è invece prossimo alla differenza ontologica di Heidegger, presunto massimo filosofo della modernità, anch’egli per molti anni nazista. A base della filosofia politica di Agamben quale perpetuazione del campo concentrazionario e dello stato di emergenza c’è, a ben vedere, una ontologia politica. Ossia la riproposizione, attraverso Heidegger, di una categoria filosofica del tutto arcaica ed estenuata come quella di “Essere”, con la conseguente consegna di tutta la realtà, umana e non-umana, a un principio ad essa ulteriore – quale appunto quello dell’Essere – indefinibile e non determinabile, da cui potremmo aspettarci solo “invii destinali”, cioè imposizioni non discutibili di senso e di configurazione di epoche storiche. Dove ciò che vale è proprio il nesso di esclusione-implicazione che Agamben usa e ripete, ossessivamente, in ogni ambito del suo pensare: modellato proprio sulla frattura originaria e abissale tra Essere ed Esserci, cioè tra principio ontologico e principio antropologico, per la quale gli esseri umani rimuovono dal loro orizzonte, ormai solo mercatorio e utilitaristico, quell’Essere (sacrale ma non religioso) che pure li fonda: escludendo in tal modo ciò che è il presupposto implicito del loro vivere.
Così lo stato di eccezione, la possibilità di ridurre ogni soggetto a “nuda vita” sottoponendolo a un potere autoritario sovrano, sarebbe la vera realtà, il principio immanente dell’ordine istituito delle democrazie, esattamente come l’Essere di Heidegger è, nella sua lontananza estrema, il principio immanente, pur se rimosso e dimenticato, dell’esistenza umana.
Questo è dunque lo sfondo teorico originario nel quale collocare e valutare l’appello che Agamben rivolge in questa sua battaglia contro la biopolitica vaccinale, a favore di una resistenza alla norma collettiva e pubblica da parte dei diritti del singolo. Con l’implicito ma non dichiarato convincimento – aggiungiamo noi – che in realtà possa veramente intendere il suo discorso solo colui che si colloca nella nobiltà dell’altrove, dell’assolutamente Altro, e sia in grado quindi di pensare la filosofia politica solo ponendo alla sua base una ontologia politica: giacché si agisce nella storia e nella società solo se si pensa e si affronta la questione dell’Essere.
Non a caso ad Agamben, ossessionato da sempre dallo stato di emergenza, si è associato, in questa rivendicazione dell’autodeterminazione contro lo Stato biopolitico e autoritario, un altro frequentatore, sebbene meno raffinato e profondo, dell’altrove e del fuori, qual è Massimo Cacciari. Fin dal suo testo del 1976, Krisis, egli ha infatti mostrato un’adesione alla rivoluzione reazionaria di Heidegger, teorizzando come di fronte al fallimento nichilistico della ragione e delle scienze nella loro pretesa di fissare verità oggettive, l’unico approccio in un contesto di realtà attraversato da costanti criticità e confronti tra forze diverse sia quello della “decisione”. Specificamente, nel caso della nostra contemporaneità, la decisione di opporre alla volontà di potenza della “tecnica”, e alla sua diffusione quale megamacchina della nostra vita, i valori di un umanesimo profondamente mediato dal pensiero dell’Essere.
La ragione umana, teorizza Cacciari, si prova a pensare l’empiria, la molteplicità dei fenomeni del mondo, ricercandone leggi e causalità, ma viene meno nella spiegazione di ciò che dovrebbe dare legittimità e forza originaria al suo procedere: nella spiegazione cioè, non di come le cose esistano, ma perché esistano. Ossia, per dirla, anche qui con Heidegger, perché l’Essere e non il Nulla? Il conoscere può infatti legiferare tecnicamente sull’esistente, spiegandolo per cause, ma non è in grado di dimostrarne l’Essere, ovvero di come sia giunto all’esistenza. Per questo va risolutamente affrontato il problema dell’Inizio, dell’Inizio Assoluto, di “un Prius assoluto, incondizionato […] L’idea dell’essere precedente ogni pensiero, l’idea-limite dell’incondizionatamente esistente [che] è l’‘abisso’ della ragione”.
Alla stregua di tutti i neoparmenidei contemporanei (tra questi Emanuele Severino), Cacciari non si è mostrato dunque per nulla avvertito della lunga tradizione di filosofia critica la quale, nella modernità, ha insegnato che parlare di Essere e Nulla significa – come avrebbero detto maestri come Adorno, Wittgenstein e il nostro Guido Calogero – cadere nell’errore di sostantificare delle parole, piombare cioè nella trappola di prendere parole per cose, o di prendere lucciole per lanterne. Ed è coerentemente arrivato a trasumanare nel pensare, a lungo e con decisione, il problema del rapporto possibile tra inizio assoluto e mondo. Giungendo a teorizzare, anche qui in modo pressoché analogo a quello di Agamben, che l’Essere dell’Inizio non deve essere costretto a entrare in rapporto con la cosiddetta realtà concreta – non deve essere gravato dalla questione della creazione del mondo – perché, nella sua assoluta indifferenza rispetto al mondo, deve implicare anche la possibilità di non-essere: di essere cioè perfettamente libero di essere potenza-di-essere che si traduce nell’esistenza, così come di essere potenza di non-essere che rimane nel Nulla e non passa nell’esistenza. Tanto che Cacciari, recuperando la radicalizzazione teologica dell’ultimo Schelling, può sostenere che “l’Inizio, come puramente Com-possibile, contiene in sé ogni possibile, fino alla propria stessa im-possibilità”. E appunto proprio in questo campo originariamente infinito di possibilità come Inizio di ogni inizio si iscriverebbe l’autenticità della vita di ognuno come decisione e libera affermazione di sé.
Ora, lasciando riposare in pace Aristotele che forse sarebbe sobbalzato di fronte a una potenza che non sia destinata a realizzarsi nell’atto, quanto si è detto qui di questioni di ontologia e metafisica – assai in breve e quasi celiando – vale per noi solo a evidenziare quanto siano distanti dal mondo reale quell’altrove e quel fuori. Da quella posizione privilegiata, i due intellettuali pretendono di parlare di patologie umane e cose terrene, ignari della distanza che separa il pianeta terra dalle loro costellazioni ontologiche.