di Alessandro Simoncini
Anche se le forze populiste nel mondo hanno leggermente frenato una corsa che sembrava inarrestabile, le cause profonde del populismo restano intatte nell’“intreccio di tre crisi differenti”: una crisi economica che ha colpito duramente, e continua a colpire, ceto medio e classi subalterne; una crisi politica che ha generato, e genera, sfiducia nei confronti del sistema dei partiti; una crisi “culturale” che ha prodotto, e continuerà a produrre, una crescente percezione di insicurezza nei confronti di profughi e migranti, con le correlate richieste di protezione identitaria. A completare il quadro c’è poi il rafforzamento di un ambiente mediatico, come quello dei social network, molto favorevole alla conquista di visibilità e egemonia da parte dei populisti (D. Palano, Apocalisse democratica, in “Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto”, 2, 2020).
Per questo è interessante e utile tornare a leggere due brevi densi testi in cui, nel 2016, Mario Pezzella ha schizzato i lineamenti fondamentali di una Critica della ragion populista (Critica della ragion populista, in “Il Ponte”, 8-9 2016 e in S. Cingari, A. Simoncini, Lessico postdemocratico, Perugia, PUP, 20161). La Critica di Pezzella va riletta per quello che è: un frammento di “ontologia politica dell’attualità” che si insedia con una prospettiva di parte dentro un campo strategico ben determinato, quello della lotta tra teoria populista e teoria socialista. Pezzella pensa e scrive la sua Critica dentro il cosiddetto “momento populista” e contro La ragione populista di Ernesto Laclau (Roma-Bari, Laterza, 2008): il testo che – come sappiamo – ha funzionato da “metafisica influente” per la sinistra populista europea e non solo. Con Laclau, contro l’idea stessa di una sinistra populista, Pezzella ingaggia un serrato corpo a corpo nel corso del quale compie tre mosse teoriche (tra le altre) particolarmente interessanti.
In primo luogo riconosce la forza analitica del modello di Laclau, che permette certamente di comprendere al meglio le quattro condizioni necessarie all’ascesa del populismo: la crisi radicale dell’ordine democratico-rappresentativo; l’identificazione psichico-simbolica “di massa con l’Io ideale incarnato dal Capo”; l’indicazione di un altro “come nemico esterno del popolo”; l’individuazione di un “significante vuoto” che, ripetuto retoricamente fino allo sfinimento – sia esso il Prima gli italiani di Matteo Salvini o il Patria digna frente a los corruptos di Pablo Iglesias (con tutte le loro ovvie differenze) –, permette di costruire politicamente il popolo conferendo unità a una serie di domande popolari altrimenti disperse e incompatibili tra loro (p. 188).
Subito dopo aver riconosciuto al modello di Laclau la sua grande capacità analitica, però, Pezzella ne mette efficacemente in luce i limiti. Il primo limite è legato al fatto che il populismo aggancia necessariamente la sua efficacia alla potenza spettacolare del “significante vuoto”. Nei fatti il significante vuoto funziona come un’“immagine di sogno” dotata di potenza rassicurante, fusionale, e quindi capace di conferire unità al popolo sul piano mitico-immaginario (p. 189). In questo il populismo non è che l’ultimo scenario della società dello spettacolo. Aggiornando la lezione di Debord, Pezzella lo considera quindi come una “rappresentazione spettacolare di nuovo conio che sostituisce la contesa fantasmatica dei vecchi partiti”; che completa la trasformazione della “democrazia in spettacolo”; e che, restando sempre “nel campo dell’immaginario”, non tocca mai “il dominio reale del capitale” (p. 187 e pp. 191-192). La prima mossa critica di Pezzella – certamente debordiana – permette quindi di mostrare come Laclau non problematizzi abbastanza il coefficiente di passività spettatoriale che lo spettacolo della politica populista, di destra o di sinistra, sempre implica. Anzi lo teorizza e lo rivendica, sostenendo che l’efficace “messa in scena” populista dell’autonomia del politico sia l’unica forma reale della politica.
Politica che – sottolinea Pezzella (avviando così la sua seconda mossa teorica) – Laclau pensa concentrandosi sul solo terreno del politico, perlopiù declinato in chiave statual-nazionale. Senza indagare le contraddizioni determinate del capitale, Laclau spiega infatti la costruzione del popolo come un’operazione egemonica, simbolica e linguistica, in cui il leader ha un ruolo centrale. È infatti il leader che dà letteralmente corpo all’immagine ideale veicolata dal significante vuoto. Ed è intorno a questa immagine che si coagulano le domande popolari. Il leader può essere padre o fratello. Ma paterno-dispotico o fraterno-democratico che sia, il populismo richiede la presenza di un leader che dà ordine al popolo e che costituisce il popolo come ordine. Il populismo, di destra o di sinistra che sia, è quindi in buona sostanza una macchina ordinativa fondata sulla “decisione fondatrice” – scrive Pezzella (p. 191). È un dispositivo hobbesiano e schmittiano che non solo aumenta la distanza tra chi governa e chi è governato, ma opera attraverso una reductio ad unum che silenzia l’espressione molteplice delle domande popolari, pregiudicando – aggiungerei – la soggettivazione delle differenze di classe, di genere, di razza e le loro autonome connessioni. La seconda mossa teorica di Pezzella – mossa anti-hobbesiana e anti-schmittiana (e assai prossima alla lezione di Miguel Abensour) – mostra quindi il tratto spoliticizzante dei populismi di destra e di sinistra che, mentre simulano la ri-politicizzazione di un sociale desertificato dal neoliberalismo e dalla post-democrazia, finiscono per spoliticizzarlo ulteriormente.
Ciononostante – ed è la terza mossa teorica importante di Critica della ragion populista –, di fronte alla crisi dell’ordine democratico rappresentativo, Pezzella ci invita a non liquidare il populismo con sufficienza e superiorità. Occorre infatti ammettere che, pur senza mai mettere “in pericolo i centri decisionali del potere economico”, il populismo riesce non solo a coagulare in modo inquietante gli affetti popolari – le paure, le angosce, i desideri, la sofferenza –, ma anche a catturare il dissenso sociale e le istanze critiche delle masse, mettendoli al lavoro grazie a una “rivoluzione passiva” (p. 188 e 195). Dentro la crisi dell’ordine rappresentativo, occorre quindi comprendere e decifrare le “immagini di sogno” del populismo – le sue “idee senza parole” avrebbe forse detto Furio Jesi –, per trasformarle in “immagini dialettiche” (p. 188; F. Jesi, Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979). Occorre cioè ripensare, in forme e modi aggiornati, l’immagine dialettica del socialismo.
In un sintetico frammento che chiude Critica della ragion populista, Pezzella traccia quindi una sorta di programma teorico: al sistema di credenze mitico-fusionali del populismo – scrive – il socialismo oppone “una coscienza di sé, che richiede il gioco del riconoscimento paritario con l’altro”; all’ordine come misura dell’azione politica oppone “il riconoscimento tra eguali”; al superamento della delega nell’acclamazione del capo oppone la produzione di istituzioni democratiche alternative e nuove regole della rappresentanza che controllino i rappresentanti “fino al diritto di revoca” (p. 195). Questa terza mossa – di matrice benjaminiana – apre un passaggio sul lavoro di Pezzella intorno alla Comune di Parigi intesa come “utopia concreta” e come riconfigurazione della vita quotidiana: come esperienza socialista sconfitta, cioè, ma ancora gravida di possibile (M. Pezzella, La Comune e la somma dei possibili, in Il tempo del possibile: l’attualità della Comune di Parigi, a cura di F. Biagi, M. Cappitti, M. Pezzella, “Il Ponte”, 3, 2018).
Non è questo il luogo per parlarne. Merita però concludere, riportando per intero la domanda che Pezzella ha voluto incidere sulla quarta di copertina del bel libro di Kristin Ross da lui curato (Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020); si tratta di una domanda che, nonostante la sconfitta, la Comune continua a rilanciare senza posa: “È concepibile una vita senza rapporti di servitù e di sfruttamento, senza il dominio esclusivo del denaro, senza Stato e senza capitale?”. Mi pare che questa domanda semplice e terribile –sempre al centro di ogni possibile politica emancipatoria – stia felicemente sullo sfondo di tutta l’opera di Pezzella.
1 Da questa edizione cito d’ora in poi il numero di pagina in parentesi nel testo.