di Rino Genovese
Ci s’interroga sulle ragioni della terribile alta mortalità da coronavirus in Italia, un record in Europa: siamo arrivati a 64mila mentre scrivo, e non è ancora finita. Le risposte possibili sono molte. Gli esperti (io naturalmente non lo sono) non hanno saputo ancora trovare una causa per questa ecatombe. Dubito che la troveranno, anche perché le cause – lo abbiamo appreso da tempo – per lo più sono molteplici, e per la spiegazione di un qualsiasi fenomeno si deve sempre parlare di concause. Sembra che tirare in ballo l’età mediamente anziana della popolazione italiana non sia una risposta o, almeno, sia una risposta insufficiente. Dopotutto non è che la Germania, dove di coronavirus si muore assai meno, sia un paese di giovinetti. Una spiegazione del genere potrebbe funzionare per quei paesi in cui l’età media si aggira intorno ai trent’anni (come l’Algeria, per fare un esempio); ma, restando in Europa, pare che il Regno Unito, dove l’età media è più bassa di qualche anno rispetto a quella italiana, si muoia all’incirca quanto in Italia. Là, però, all’epidemia è stata data quasi briglia sciolta con restrizioni, almeno nei primi tempi, poco severe e molto “all’americana”, diciamo così, nell’ideale corrispondenza d’intenti tra Boris Johnson e Trump.
Più seria e centrata appare una spiegazione basata sulle pecche della sanità italiana. La mancanza di posti letto in terapia intensiva, soprattutto, che ha costretto i medici, in non pochi casi, a scegliere tra chi “intubare” (un’espressione che a me sembra già di per sé agghiacciante) e chi invece abbandonare al proprio destino. All’inizio dell’epidemia (quando particolarmente in Lombardia si moriva come mosche, anche per alcuni ben evidenti errori locali su cui la magistratura sta indagando), c’era in Germania più o meno lo stesso numero di terapie intensive della Francia e l’Italia messe insieme. È palese, tuttavia, che nessuno si attendesse – nell’avanzato e civilissimo mondo occidentale – lo scatenarsi di una pandemia di queste proporzioni. Anche perché alcuni allarmi, negli anni scorsi, si erano rivelati quanto meno esagerati. E un paese come la Francia, che aveva speso un sacco di denaro pubblico per prepararsi a un’epidemia d’influenza che poi non ci fu, aveva visto finire sotto attacco la ministra della sanità dell’epoca Sarkozy, che era una ex verde.
Per venire a noi, ed entrare così un po’ alla volta nell’argomento che vorrei sottoporre all’attenzione, non c’è dubbio che nella pianura padana – in cui si conta circa la metà della totalità delle vittime in Italia – ci sia un’aria irrespirabile e, quindi, un’alta incidenza di malattie respiratorie in genere. Dunque una risposta alla domanda chiama in causa la scarsa sensibilità ecologica su cui è costruito il modello italiano, quello di un capitalismo molto più inquinante della media europea, organizzato da quegli stessi imprenditori del nord – non tutti, per carità – che sono usi riciclare i rifiuti tossici nel sud del paese con l’aiuto della criminalità organizzata. Gli stessi allevamenti intensivi, caratteristici della valle del Po, sono qualcosa di altamente pernicioso per l’ambiente: lo smaltimento dei liquami, alla “brutto boia” (per usare un’espressione tipica di quelle parti), provoca un aerosol atmosferico che certo non aiuta i polmoni abituati a respirarlo quando questi siano attaccati dal virus.
Affrontando questioni del genere, siamo all’interno di un discorso “eziologico” (termine medico che indica la ricerca delle cause di una malattia) che punta a individuare le cause delle cause, come avrebbe detto il nostro compagno Giulio Maccacaro (purtroppo prematuramente scomparso nel 1977) che si occupava di medicina in senso sociale. La malattia – la stessa epidemia che stiamo vivendo – non è mai un accidente soltanto naturale (anche se lo è, sia ribadito contro tutto lo sciocchezzaio complottista); essa diventa immediatamente, se prendiamo a esaminarla nel suo contesto ampio, un problema socialmente determinato, o co-determinato, che chiama in causa la forma di vita nel suo insieme.
E questa forma di vita, in Italia (a volere introdurre brevemente un argomento che definirei non tanto sociologico quanto antropologico-culturale), basata com’è arcinoto sulla famiglia, è fondata al tempo stesso su una centralità degli anziani nella vita familiare. Non mi riferisco unicamente all’importanza delle pensioni nel sopperire ai disastri della disoccupazione giovanile o alle mancanze del welfare; mi riferisco anche al fatto che gli anziani – i padri e le madri che, con il tempo, diventano i nonni e le nonne – esigono, e viene loro conferita, una centralità nella vita quotidiana altrove sconosciuta. Quando poi arriva una pandemia, schiavi delle loro abitudini, questi “vecchi di famiglia”, come potremmo chiamarli, non riescono a difendersi, non ce la fanno a restarsene soli (nemmeno nelle case di riposo), e si lasciano contagiare da figli e nipoti. Non parliamo, inoltre, della “partitina a carte con gli amici nel bar del paese”, innocente abitudine costata ben cara nei primi tempi dell’epidemia a quella vita da paese metropolitano condotta – ancora una volta, in particolare nella pianura padana – da quegli anziani così essenziali all’economia familiare italiana. È insomma una forma di familismo fin troppo morale (per alludere, rovesciandole, alle famose tesi di Banfield sul “familismo amorale”) a condannare oggi molti vecchi a una malattia spesso letale il cui contagio si trasmette, come sappiamo, tra il settanta e l’ottanta per cento proprio in famiglia.