di Rino Genovese
Scompare Rossana Rossanda, carica di anni e generosi errori, e con lei se ne va un pezzo della storia della sinistra italiana. Ma non si dica, come peraltro avrebbe detto lei stessa, che questa sinistra sia finita “da sconfitta”. Sconfitta da chi? In quale guerra non dichiarata? Durante quale insurrezione mai intrapresa? Rosa Luxemburg o Che Guevara sono stati vinti sul campo. La stragrande maggioranza della sinistra italiana nel dopoguerra, compresa la piccola parte rappresentata da Rossanda e dai suoi, fu invece riformista da cima a fondo, sia pure con varie gradazioni e sfumature all’interno del riformismo. Tutt’al più si potrebbe parlare, come fece una volta Lucio Magri in riferimento alla componente ingraiana del Pci, dalla quale il gruppo del manifesto era uscito, di un “riformismo rivoluzionario”, indicando con ciò che s’intendeva puntare a una trasformazione sociale profonda, a un superamento del capitalismo. Ma riformisti in questo senso furono anche non comunisti come Riccardo Lombardi o quel Vittorio Foa con cui il gruppo del manifesto tentò per un tratto di fare causa comune, fallendo poi a causa del solito settarismo.
“La rivoluzione non è la presa del palazzo d’Inverno” era uno degli slogan con cui Rossanda e i suoi si presentarono come dissidenti, e tuttavia a loro modo continuatori, del partito da cui vennero cacciati: con ciò esprimevano la lontananza dall’idea di una presa del potere mediante un colpo di mano di tipo bolscevico, sulla nozione di “dittatura del proletariato” preferendo sorvolare. Un altro slogan era “dallo stalinismo si esce da sinistra”, volendo significare che non ci si sarebbe dovuti adagiare in una pura e semplice pratica di cogestione del capitalismo, sostanzialmente socialdemocratica, come veniva facendo il Pci sulla base del modello emiliano. Tutto ciò veniva fuori comunque dall’alveo della tradizione comunista e del pensiero gramsciano, di cui si sottolineava il momento democratico consiliare (già criticato dall’ultrabolscevico Bordiga) e quello delle “casematte” del potere, che rinviavano appunto a un’idea di rivoluzione come lungo processo e non come “guerra di movimento”. Un gramscismo alla Togliatti – che per parte sua aveva tenuto fermo al mito dell’Unione Sovietica e, al tempo stesso, ne aveva negato il carattere universale con la ricerca di una via democratica al socialismo – era quello su cui Rossanda e i suoi purtuttavia non cessavano di appoggiarsi quando decisero di rompere gli indugi e dichiarare fallito il cosiddetto socialismo reale dei paesi dell’Est europeo, cominciando però a flirtare con l’altro modello che si delineava in quegli anni, quello della Cina maoista, di cui Rossanda, ancora in anni recenti, negava il carattere stalinista, oggi del tutto palese al retrospettivo sguardo storico.
Ecco, gli errori… Sono sia quelli che si compiono nell’analisi delle situazioni concrete sia quelli di prospettiva, puramente teorici. Ma chi non vuole affrontarne il peso preferisce parlare di sconfitte. Forze politiche, o gruppi intellettuali militanti, ben inseriti nel gioco di una democrazia liberale, non sono sconfitti se non dai propri errori. Un esempio fu quello della presentazione alle elezioni nel 1972 con una lista autonoma (che prese lo 0,6 % dei voti e non ebbe nessun deputato): ma, di questo, Rossanda e gli altri fecero ammenda. Invece di essere restata comunista e marxista tutta la vita, continuando a vedere la contraddizione tra gli sfruttatori e gli sfruttati come il centro gravitazionale di qualsiasi oppressione e stortura sociale, di ciò Rossanda si sarebbe sempre gloriata. La sottovalutazione del femminismo nasce da qui: non essendoci per lei altro dominio se non quello capitalistico, il potere patriarcale dell’uomo sulla donna è un che di secondario, non qualcosa di cui cogliere, nella durata storica, il carattere arcaico-tradizionale, la cui presa d’atto avrebbe indotto a dubitare dell’idea di un capitalismo come mostro totalizzante. Così pure, su un altro piano, nel famoso congresso del Pci del 1966 in cui la sinistra ingraiana diede battaglia considerando l’esperienza del centrosinistra di allora, che escludeva i comunisti, come una forma di modernizzazione del paese nei termini di una “rivoluzione passiva” secondo Gramsci (per dirla in breve, una sorta di riforma dall’alto, che lascia impregiudicati i rapporti tra le classi sociali), non fu posta la questione di quella “contemporaneità del non contemporaneo” che vedeva migliaia di contadini emigrati dal Sud diventare operai nelle fabbriche del Nord, recando all’interno di queste un tasso di conflittualità, uno spirito di ribellione alla catena di montaggio, che non era tanto la cifra di un nuovo ciclo di lotte in un’economia del benessere, quanto piuttosto la spia di un “passato” contadino che si riadattava ai tempi – mettendo fuori causa sia le classiche analisi gramsciane intorno all’alleanza tra Nord operaio e Sud agrario, sia le lamentele più o meno regressive intorno alla perdita secca di una cultura rurale semplicemente cancellata da quella industriale. In fondo anche il successivo 1969 italiano, con il suo “autunno caldo”, portava il segno di un cozzo tra mondi eterogenei, risultato imprevedibile di un amalgama tra tempi storici differenti molto più di quanto non fosse espressione di una già tardiva “centralità operaia”, ormai sempre meno decisiva in un mondo che di lì a poco si sarebbe lasciato alle spalle l’organizzazione produttiva fordista.
Altro errore di Rossanda, con il senno del poi, fu non già di avere protestato contro la legislazione sui cosiddetti pentiti che servì a sgominare le Brigate Rosse – questo fu anzi un suo merito garantista, sebbene prendano da lì le mosse anche i successivi processi di mafia –, ma di avere tenacemente accreditato la tesi, suffragata soltanto da una personale visione ideologica, del carattere del tutto genuino del principale gruppo della “lotta armata”, alcune delle cui imprese furono invece molto probabilmente inquinate se non eterodirette. Proprio il più chiacchierato degli esponenti delle Brigate Rosse, Mario Moretti, fu preso da Rossanda come interlocutore privilegiato in questa circostanza. C’era in lei una volontà di autocritica nei confronti dell’uso della violenza (l’“album di famiglia”), e però anche una sopravvalutazione delle origini “comuniste” delle Brigate Rosse, le cui radici ideologiche solo in minima parte affondavano nello stalinismo e in alcuni aspetti della Resistenza, essendo da rintracciare piuttosto nella coeva guerriglia urbana sudamericana dei tupamaros e dei montoneros. L’aspetto fantapolitico della “lotta armata”, cioè di vera e propria sfasatura storico-sociale rispetto alla situazione di un paese occidentale moderno come l’Italia, veniva a essere così attenuato nella prospettiva dei “compagni che sbagliano”.
Intervistato da un telegiornale nel 1981, Umberto Terracini disse a chiare lettere che la scissione di Livorno del 1921, a cui aveva preso parte da protagonista, era stata un errore: in proposito aveva avuto ragione Filippo Turati, che tale l’aveva considerata. Era l’ammissione di un fallimento, che sarebbe apparso in tutta la sua portata soltanto nel 1991, con la fine dell’Unione Sovietica. Rossanda non si sarebbe mai spinta fino a sostenere una simile verità. Non fu abbastanza eretica da comprendere, come invece si poteva evincere dalle parole di Terracini, che la storia del comunismo, compresa quella del peculiare comunismo italiano, è da considerare nel suo insieme un errore da inserire nella più ampia storia del socialismo – che di errori, del resto, ne ha conosciuti molti altri. Per noi c’è oggi il problema di come ereditare, con beneficio d’inventario, l’interezza di questa storia. Anche di quella piccola parte di cui fu protagonista Rossanda.