Coronavirus, aspetti economici e sociali di una crisi

Coronavirusdi Riccardo Bellofiore

[Sbobinatura di un intervento orale, riveduta dall’autore]

1. La crisi non è esogena: natura e forma sociale

Quello che proverò a fornire è un inizio di scrematura dell’orizzonte problematico in cui leggo questa crisi. Vado per punti, in un discorso che si articola in diversi movimenti.

Primo movimento. Questa crisi non è, come spesso si legge, una crisi “esogena”, cioè qualcosa che da un esterno (la natura) investe la sfera economica. Se vogliamo, questa è una crisi “semi-esogena” perché in parte è indipendente dalla forma sociale, ma nella sostanza è invece legata a doppio filo all’organizzazione capitalistica della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita. Non è vero neanche che questa crisi sia giunta inaspettata. Una crisi del genere di quella che stiamo attraversando fu prevista, per esempio, nel 2005, sulla rivista Foreign Affairs, in un articolo preveggente sulla prossima pandemia.

Questa crisi mette in evidenza il rapporto perverso tra società e natura, che è peraltro già stato al centro della discussione, negli ultimi anni, in merito al cosiddetto cambiamento climatico, ma non è mai stato veramente preso sul serio dalla politica e dalla politica economica. Certo, si potrebbe dire che il problema non è il capitalismo ma la struttura industriale. Le cose però non stanno proprio così. Il primato di una produzione tesa all’estremo al fine di una estrazione di profitto si è andato ad accompagnare a un approfondimento della diseguaglianza globale, in alcuni casi in modo anch’esso estremo, dunque a malnutrizione, a forme di agricoltura e allevamento intensivi, al sovraffollamento abitativo, a una urbanizzazione eccessiva. Tutto ciò ha fatto sì che trasmissioni virali, che avrebbero altrimenti avuto un’evoluzione lenta, abbiano visto una drammatica accelerazione.

A una pretesa di crescita esponenziale del capitale ha risposto una crescita esponenziale nella diffusione dei virus. Questo è presumibilmente il futuro che abbiamo davanti. L’alternativa non è, ai miei occhi, una “decrescita” (che sta pur sempre nell’orizzonte della crescita, solo volta in negativo), semmai uno sviluppo qualitativo radicalmente differente. È stato proprio l’orizzonte di una crescita tutta interna alla forma sociale capitalistica che ha prodotto anche le politiche cosiddette neo-liberiste degli ultimi quarant’anni, a partire dalla privatizzazione della sanità.

Il discorso appena svolto rende problematico il ragionamento diffuso nella sinistra quando si vuole andare alla caccia di colpevoli o si pone la questione del “chi” paga la crisi. Fatemelo dire così, con una battuta: i colpevoli stanno tra un pipistrello in Cina e il sistema sociale, quel sistema da cui si ricava reddito e lavoro; non sono la finanza cattiva o questa o quella associazione industriale. Non è una questione di persone, è una questione di sistema.

2. Mario Draghi: è bene che il debito pubblico aumenti

Secondo movimento del ragionamento. Iniziamo ad affrontare la questione della situazione economica in cui ci troviamo a vivere. Qui non si può non prendere come riferimento l’articolo di Mario Draghi sul Financial Times del 25 marzo, un articolo importante. Il problema, in questa crisi, non è la mancanza di domanda effettiva o le sopraffazioni della finanza. Non è una crisi dove Keynes è la risposta. È una crisi – ci dice Draghi – in cui a essere in questione è direttamente la sopravvivenza delle imprese, soprattutto medie e piccole, dove è occupata la gran parte della forza-lavoro. È una crisi nella quale esiste un problema di sopravvivenza delle famiglie. Per questo si deve fornire un sussidio, alle imprese come alle famiglie.

Il SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency) approvato in sede comunitaria è una forma di garanzia del reddito di fronte ai problemi dell’occupazione. È chiaro che si tratta di una misura che è piena di problemi, molti però derivano dalla struttura del mercato del lavoro che deriva dal passato, e dai modi ereditati con cui è disegnato il sostegno ai lavoratori. Da questo punto di vista, sono d’accordo con quanto ci ha detto Giovanna Vertova. Un sostegno al reddito è più che opportuno, è necessario, ma è un sussidio: qualcuno lo chiama “reddito di quarantena”, e non ha molto a che vedere con il reddito di esistenza.

In questo contesto – afferma Draghi – le banche non possono che intervenire fornendo liquidità senza limiti e azzerandone i costi di accesso. È un insieme di misure che, certo, vengono viste da lui come temporanee, ma sono percepite come inevitabilmente di dimensioni massicce, come qualcosa d’inedito che segna una svolta. Di qui il tema della garanzia da dare alle banche: non molto tempo dopo, in Italia, è intervenuta la copertura statale. Com’è stato sostenuto, non si vede perché a questo punto non dovrebbe intervenire una banca nazionalizzata. Il problema, in ogni caso, esiste, ed è un problema reale; così come può esistere un problema di sospensione temporanea della fiscalità su imprese e lavoro. Draghi è giunto sino a parlare di cancellazione del debito privato.

3. Come si finanzia il debito pubblico: MES e Coronabonds

Il punto chiave è comunque che Draghi ha detto forte e chiaro che non solo il debito pubblico non può che aumentare: ha chiarito che è bene che aumenti. E qui si pone evidentemente la questione, forse oggi la più dibattuta, quella del “finanziamento”: il terzo movimento del mio ragionamento. Come si può finanziare questo aumento del debito pubblico e qual è il ruolo delle imposte?

Cominciamo con l’European Stability Mechanism, il MES, che fu approvato tra il 2011 e il 2012. Quando Draghi dichiarò che avrebbe fatto tutto il possibile per salvare la moneta unica stava mettendo mano a uno strumento, l’Outright Monetary Transactions, che consisteva nel consentire alla Banca Centrale Europea l’acquisto in quantità illimitata di titoli a breve termine emessi da paesi in difficoltà, aggirando così le strettoie poste all’azione della politica monetaria: ma quel paese doveva aver acceduto al programma del MES. Il problema è che il MES prevedeva pesanti condizionalità. Nella sua nuova veste, disegnata in questa crisi, tali condizionalità sono state pesantemente abbattute. Almeno secondo alcuni resta vero che, stante la struttura dei trattati europei, esiste il rischio che tale condizionalità possa essere inserita successivamente; altri sottolineano che l’Italia, dato il peso della sua quota, potrebbe (come la Francia e la Germania) porre il veto a un mutamento delle condizioni. Nel primo caso è molto poco appetibile attivare questa procedura (un po’ come, va ricordato, l’OMT, che rimase sulla carta: a funzionare per uscire dalla crisi non fu quel meccanismo, mai impiegato, ma il whatever it takes). L’Italia dichiara al momento di non volerla utilizzare.

La forma alternativa è il finanziamento via Eurobonds che, in questa circostanza, sono stati ribattezzati Coronabonds. In questi anni, dentro la comunità, se uno Stato vuole finanziare mediante titoli il suo disavanzo pubblico emette titoli venduti ad agenti come i fondi di investimento, i fondi pensione, e così via, in cambio di interessi a lungo termine. Questi interessi dipendono evidentemente da come il mercato valuta il rischio del paese in questione. Di qui i famigerati spread: la Germania con i suoi buoni del tesoro a dieci anni ha dei tassi di interesse negativi, l’Italia li ha molto più alti, anche se mille miglia lontani dal livello che fu raggiunto in Grecia. L’idea degli Eurobonds interviene qui: si tratta di procedere a una emissione di titoli non come singolo Stato nazionale, ma come intera comunità europea, dando luogo così a una garanzia collettiva e a una compartecipazione del rischio. Si parla perciò di mutualizzazione del debito, che consentirebbe di ottenere tassi di interesse molto più bassi per la gran parte delle nazioni coinvolte (e un po’ più alto, per quelle oggi privilegiate).

Un dilemma iniziale, a questo punto, è: per cosa impieghiamo le entrate da questi Coronabonds? Un’idea, in qualche misura minimale, è quella che propone di coprire le spese dei vari paesi, a partire evidentemente da quelli adesso più colpiti. C’è un’altra idea, diciamo massimale, che poi è l’unica veramente interessante secondo me, che muta il soggetto della spesa (anche se non chi dovrebbe avvantaggiarsene) che dice: partiamo da questi Coronabonds per costruire finalmente un bilancio pubblico della comunità europea degno di questo nome.

Avremmo una spesa pubblica comunitaria sostanziosa immediatamente a livello europeo, legata finalmente a un bilancio pubblico di un qualche peso (crescente). Il passo ulteriore sarebbe evidentemente quello di poter prelevare imposte al livello comunitario, cosicché si potrebbe parlare davvero di una politica fiscale comune, di una più immediata integrazione di politica monetaria e politica fiscale, e quindi anche di un’unione politica in formazione dietro l’unione monetaria. Da questo punto di vista il vero nodo risiede in questa possibile connessione: capacità di emettere debito europeo => capacità di spendere comunitariamente => unione politica. Se non si arrivasse mai a questo, non si potrebbe parlare in modo compiuto di autentica moneta unica, e prima o poi il suo simulacro attuale non potrebbe reggere.

Detto questo, resta che il dibattito Mes versus Coronabonds non è forse la cosa più importante e certo non è la fine della storia, perché se si chiude lì lo sguardo si rischia di non vedere quello che sta succedendo. Il patto di stabilità, in questo momento, semplicemente non c’è più: questo vuol dire “sospeso”. In teoria l’Italia può spendere quanto vuole. Però, chi la finanzia? Di fatto, la Banca Centrale Europea che, almeno in questo momento, sta comprando i suoi titoli senza più alcun tetto. E questa è la seconda novità: ogni limite agli acquisti dell’istituto di Francoforte, dopo la (benvenuta?) gaffe di Christine Lagarde è saltato, sicché – sia pure in modo non del tutto trasparente, ma pure abbastanza palesemente – agisce come prestatore di ultima istanza. Come per il patto di stabilità, la BCE come finanziatore degli Stati nazionali, il cambiamento è stato a 180 gradi, drastico e subitaneo. Nell’uno e nell’altro caso, proprio sui due punti (giustamente) al centro della critica all’ideologia di Bruxelles, la velocità della metamorfosi è stata pari alla diffusione del virus.

Due eventi successivi, nel mese di aprile, vanno qui brevemente richiamati, come primo aggiornamento. Il primo è la presentazione, avvenuta il 19 aprile, del “non-paper” spagnolo, che contiene il disegno di un piano per la ripresa europea. Si tratta di una benvenuta radicalizzazione di idee che già circolavano (penso in particolare alla versione data da Boitani e Tamborini dei Coronabonds). L’Unione Europea dovrebbe emettere titoli irredimibili per finanziare, tramite il proprio bilancio e nella misura del 10% del medesimo, grants (donazioni a titolo perpetuo) e non prestiti (da restituire). Tale mutualizzazione, oltre che del rischio anche della spesa, andrebbe effettuata in misura massiccia, con un minimo che arriva a 1500 miliardi di euro, da impiegare nell’arco di non più di due-tre anni, dal gennaio 2021, secondo una chiave di assegnazione legata alla popolazione colpita dal virus e ai problemi sanitari, ma anche all’impatto sociale ed economico negativo della pandemia. Il contenuto della spesa sarebbe da individuarsi nell’obiettivo di una ricostruzione ecologica e digitale dell’economia, assieme con quello di favorire l’autonomia industriale e tecnologica. Il principale raccolto sul mercato, come si è detto, non verrebbe mai restituito, e andrebbe dunque destinato esclusivamente a pagare l’interesse, che viene per così dire bloccato a livelli minimi anche se positivi. Mi pare che sia questa la via da seguire, proprio nello spirito di queste note.

Il secondo evento è invece il deludente rinvio, se non congelamento, di ogni decisione, così come di fatto si è deciso al Consiglio Europeo del 23 aprile. Oltre le somme del MES e del SURE, e alcune linee di credito legate alla Banca Europea degli Investimenti, non vi è granché. Abbiamo a che fare con somme d’incerta entità, con cifre non si sa quanto addizionabili l’una all’altra, nella forma non tanto di grants ma per lo più di “garanzie” e crediti attuali o potenziali, giocando su effetti leva.

Le settimane successive, in maggio, hanno visto tre altre vicende, tra loro connesse, che meritano un ulteriore commento. La prima ha a che vedere con la sentenza del 5 maggio della Corte Costituzionale tedesca che imputa alla BCE una non proporzionalità degli acquisti di titoli effettuati da Francoforte con la manovra del 2015: una sentenza di cui si temono gli effetti dirompenti per il possibile impatto sul comportamento della Bundesbank e i possibili vincoli alle decisioni del governo tedesco. Paradossalmente mi è apparsa subito una novità certamente rischiosa ma benvenuta. A quella sentenza non si poteva semplicemente reagire rivendicando (anche sensatamente) l’indipendenza della BCE o la superiore giurisdizione della Corte di giustizia europea. La sentenza scoperchia un’ipocrisia (la politica monetaria è sempre anche politica economica in senso largo), trascura la nuova natura dell’azione delle banche centrali dopo la grande crisi finanziaria, mette in luce la necessità di un autonomo e significativo intervento di politica fiscale su scala europea (e della stessa eurozona). Rispetto a quanto si è detto in precedenza in questa nota, la sentenza di Karlsruhe non poteva che costringere le varie parti in gioco a uscire da uno stallo, e da una lunga e defatigante trattativa.

È qui che si innesca la seconda vicenda: la proposta franco-tedesca sul Recovery Fund del 17 maggio. Sicuramente spiazzante rispetto a tutte le proposte sul tappeto, e certamente più limitata nell’ammontare di altre (cinquecento miliardi di euro), è però altrettanto evidente che la proposta registra comunque un mutamento di grande portata nella posizione del governo tedesco e di Angela Merkel in particolare (c’è chi ha parlato, e non è qui il caso di entrare in una discussione della validità storica del paragone, di momento “hamiltoniano”). Ciò che la proposta anche confermava era l’ottica – che ho proposto con Francesco Garibaldo in vari scritti – secondo cui l’unificazione monetaria europea, con al suo centro l’evidente costitutivo problema dell’essere l’euro una moneta senza Stato, andava vista come un processo in cui gli squilibri si potevano comporre, o meglio riarticolare, in modo anche violento, nel tempo. La Commissione, per conto dell’Unione Europea, dovrebbe emettere direttamente sul mercato finanziario titoli garantiti dal bilancio europeo, con gli Stati che dovrebbero spendere in eccesso ai propri contributi in modo redistributivo e solidale: si tratterebbe di “doni”, non di prestiti. Il principio della mutualizzazione del debito è assente solo di nome. Di fatto è presente nella proposta anche una forte dimensione accentrata a livello comunitario del bilancio pubblico per la realizzazione di un progetto europeo di investimenti. Un limite – ma nella visione che si è suggerita è forse anche un vantaggio – è che la proposta non è omogenea ai Trattati così come sono, e impone un (complesso ma necessario) iter di mutamenti. Insomma, su quella strada si (ri)apre una sorta di guerra di movimento e non di trincea, dall’esito incerto.

La terza vicenda potrebbe sembrare, e in parte sicuramente lo è, un (parziale) arretramento rispetto alla proposta franco-tedesca, e di conseguenza ancor di più rispetto a quella spagnola: ma va pur sempre nella stessa direzione, pur moderandone i termini. Indubbio in ogni caso il notevole passo avanti rispetto alla discussione che si era svolta sino ad aprile. Ci riferiamo al Recovery Fund come configurato nella proposta della Commissione Europea del 27 maggio: l’ammontare è ora di settecentocinquanta miliardi di euro: di fondi veri e non di ammontari sperati sulla base dell’operare di strane piramidi finanziarie. Qui è di nuovo l’Europa nel suo insieme che si indebita, e dunque i tassi sono più vantaggiosi, ed è l’Europa che restituirà in un lungo termine (non prima del 2028 e sino al 2058). I fondi così raccolti vengono passati (per due terzi come doni e un terzo come prestiti), secondo i bisogni accertati, agli Stati, che per una quota vi contribuiranno: e attraverso questa via la mutualizzazione del debito viene alquanto attenuata, a meno della attivazione (possibile) di un nuovo sistema di contribuzione fiscale su scala comunitaria. La costruzione di un autentico bilancio europeo federale mi pare meno marcata, seppur ancora presente, rispetto alla proposta franco-tedesca e ancor più spagnola. La cifra totale della spesa addizionale, che si potrà effettuare su scala nazionale (il che attenua la mutualizzazione della spesa), è probabilmente ancora inadeguata alle necessità, ma in questo caso più sostanziosa della stessa proposta franco-tedesca. Viene richiesta una focalizzazione della spesa in certe direzioni (d’investimento e ristrutturazione): e ciò, a dirla tutta, mi pare ragionevole. Comunque è una proposta ancora da confermare, e di cui si dovranno vedere gli sviluppi.

4. Il debito pubblico come problema politico: monetizzazione e helicopter money

Il debito non è mai un problema tecnico, è sempre una questione politica: il che non va inteso come qualcosa di “arbitrario”, è un nodo centrale legato alla forma capitalistica di produzione, è legato a filo doppio al comando sulla moneta, al controllo della sanzione monetaria. Proprio per questo i critici del capitalismo dovrebbero prestare a ciò che sta avvenendo la dovuta attenzione. Che il debito non si riduca mai a un problema meramente tecnico significa anche questo: che non opera come un vincolo sino a che viene semplicemente rinnovato, come può effettivamente essere. Il vero problema è, insomma, il pagamento degli interessi. E anche qui è vero che la politica monetaria può fare in modo che il tasso d’interesse resti stabilmente basso.

Di nuovo, qui incontriamo – come per i Coronavirus – un “campo di battaglia”, e un campo di battaglia oggi come oggi aperto: non certo per nostro merito, non per un’evoluzione positiva nei rapporti di forza, ma per la gravità di una crisi (virale) che si innesta su una doppia crisi (globale, europea).

Quanto sia aperto lo stato delle cose presente lo si vede da altre due considerazioni sul tema del “finanziamento”. La prima è questa. Ieri, la banca centrale inglese, dopo aver appena spergiurato che non l’avrebbe mai fatto, ha aperto alla monetizzazione del debito, dichiarando che nell’emergenza finanzierà le spese del governo mediante anticipazioni sul conto del Tesoro presso di sé. Si tratta, evidentemente, di verificare quanto significativo sarà l’intervento (al momento appare esiguo, ma è un primo passo), e quanto temporaneo (dipende dal decorso della crisi). La seconda – che, se si vuole, può essere vista come una radicalizzazione della prima ma in realtà la precede – è la proposta di alcuni economisti, che viene impropriamente definita di Helicopter Money, di finanziare tutte le spese, dagli investimenti nella salute al sostegno di redditi e imprese, via un finanziamento diretto a fondo perduto dell’istituto di emissione. Qui ovviamente svanisce anche la questione della crescita del rapporto debito pubblico sul prodotto interno lordo. Certo, si aggiunge sempre, “temporaneamente”. Ed è, ancora, un campo di battaglia.

5. E le imposte?

Un punto spesso sollevato, come se avesse a che vedere con il finanziamento delle spese, è un accentuato prelievo delle imposte. Si ragiona come se lo Stato dovesse prelevare le imposte per poter spendere, e come se, nella misura in cui le imposte non bastassero, dovesse rivolgersi altrove, emettendo titoli di debito pubblico o indebitandosi con la banca centrale. Non è proprio così. Lo Stato ha il potere di spendere nella propria moneta, autonomamente. Non ha bisogno di prelevare imposte per questo, cosa che avviene successivamente. Ciò non significa che possa non essere opportuno un più alto prelievo fiscale per diecimila altri fini, magari del tutto condivisibili – che so, porre rimedio alla diseguaglianza, incidere sulla struttura dei consumi. Un fine può essere aggiustare la distribuzione del reddito, un altro colpire i patrimoni. Ed è anche vero che il prelievo fiscale può influire sull’andamento temporale di disavanzo e debito pubblici, incidendo su costi e benefici, anche distributivi, della gestione di quest’ultimo.

Il mio punto di vista, come avrete capito, è diverso da quelli usuali tra gli economisti alternativi (puntualmente rappresentati nel solito balletto degli appelli, spesso condotti non guardando allo stato delle cose ma con lo sguardo incollato allo specchietto retrovisore). Provo a mettere insieme il problema del finanziamento e il problema della costruzione di un’Unione Europea degna di questo nome. Qui si potrebbe (dovrebbe) essere addirittura più coraggiosi, non solo su scala europea, ma su scala mondiale (si pensi alla vera bomba a orologeria che è la situazione dei paesi emergenti). Se ha senso il riferimento a questa crisi come a una guerra è anche perché, proprio come avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale, può avere un senso “rimettere” il debito passato, come avvenne allora a favore dei vinti. Si deve dare il segno dell’inizio di una nuova storia, e mai come nel caso dell’Unione Europea questo sarebbe opportuno. La forma – non strettamente di riconversione, ma di riallocazione del costo – potrebbe essere quella di una conversione del debito passato in titoli a lunghissimo termine, per esempio a cinquant’anni se non irredimibili, a un tasso d’interesse minimo. Il segno di un investimento politico collettivo. Non c’è purtroppo da contarci.

6. La crisi del coronavirus in continuità con la grande crisi finanziaria del 2007-2008

Giungiamo così al quarto movimento del mio discorso: ragionare della natura di questa crisi che, per un verso, è la prosecuzione della crisi del 2007-2008 e, per un altro, ne è l’esatto opposto. Perché è la prosecuzione della Grande Crisi Finanziaria? Guardate quello che è successo. La Cina è investita dal virus almeno dalla fine di dicembre. Ancora alla fine di gennaio il virus viene visto un po’ da tutti, ciecamente, come un problema solo cinese: la Cina ci ha fatto il regalo di un vantaggio temporale, almeno di un mese, per prepararci – del tutto sprecato. A fine febbraio è ormai chiaro che la Lombardia è il focolaio principale dell’infezione nel continente europeo, ma ancora gli amministratori locali sdrammatizzano e anzi invitano a continuare nella normalità. A marzo il virus dall’Italia dilaga al resto dell’Europa. In aprile ha ormai raggiunto con violenza il Regno Unito e gli Stati Uniti.

In pochissimo tempo, con grande velocità nonostante qualche incertezza iniziale, le autorità monetarie e la tecnocrazia finanziaria hanno reagito allo shock, “agganciando” la loro azione esattamente al punto dove si erano fermati nella crisi precedente: a un insieme di politiche e procedure che allora avevano conquistato con lentezza e indecisione, chi più chi meno. In particolare, la Federal Reserve ha ripreso il centro della scena, riaprendo con vigore i rubinetti della liquidità mondiale regolati dagli swap concessi a condizioni sempre più larghe a un numero di banche centrali superiore che nella crisi precedente.

Ancora una volta una potenziale crisi egemonica ha rinsaldato il primato del dollaro e, dunque, degli Stati Uniti. La loro tecnocrazia monetario-finanziaria, per quanto possa dispiacerci riconoscerlo, ha agito in qualche misura da “agente” di paese egemone e benevolente – se non altro impedendo che crollasse l’edificio. Altrimenti, il sistema delle materie prime sarebbe esploso (e quello è stato il primo allarme di possibile estensione della crisi sociale ed economica al mondo finanziario), o i paesi emergenti sarebbero affogati (il secondo allarme, anch’esso non rientrato definitivamente). Altrettanto certamente sarebbe saltato in aria anche l’insieme dei paesi sviluppati, questa volta al centro della pandemia. Tutto ciò, dopo i timori iniziali, non si è verificato.

Come ho chiarito, la stessa Banca Centrale Europea non ci ha messo quattro o cinque anni, come nell’altra crisi, ad arrivare alle posizioni del whatever it takes. Ci è arrivata quasi subito, se non istantaneamente, ed è iniziato un finanziamento senza limiti e senza precedenti nell’area della moneta unica. In questo senso, abbiamo assistito al successo dei tecnocrati nella repressione della crisi finanziaria.

Sul terreno dell’agire reale, sfortunatamente, le cose non stanno così. L’azione è stata efficace in Cina, cioè in un regime comunistico-autoritario. Il problema riguarda in primis gli Stati Uniti o l’Europa. Nessuno, si deve dire, mette in dubbio la necessità dell’intervento massiccio dello Stato (qualcuno usa addirittura il termine socialismo). Nessuno fa intervenire come variabile analitica lo stato delle bilance commerciali o delle partite correnti. Però impressiona negli Stati Uniti lo scarto tra il comportamento della tecnocrazia monetaria e la gestione politica di Trump, in Europa lo scarto tra la Banca Centrale Europea e le lentezze di Bruxelles.

7. La crisi del coronavirus in discontinuità con la grande crisi finanziaria del 2007-2008

Qual è la grande differenza tra la crisi del 2007-2008 e la crisi attuale? La differenza principale è che allora, al di là della gestione della crisi finanziaria, si poneva la questione di come uscire dalla crisi reale in cui si era precipitati, si poneva il problema di un ritorno alla crescita. Poteva avere un senso l’idea di una grande spesa pubblica di tipo keynesiano come asse del rilancio, guardando all’impulso dal lato della domanda effettiva (come fece la Cina tra il 2008 e il 2009). In questa crisi, invece, il punto non è stato un rilancio dal lato della domanda effettiva. La necessità immediata è stata quella di una enorme mobilitazione per “mettere in coma” il sistema produttivo, di mobilitare per smobilitare: mettere in fermo l’industria, i servizi, i trasporti, e così via, con tutti gli effetti sui consumi e investimenti. Una crisi altrettanto se non più grave di quella degli anni Trenta del Novecento, ma indotta e gestita dall’alto, che va organizzata.

È, in questo senso paradossale, e un po’ all’incontrario, davvero un’economia di guerra, dove è la “pianificazione” (dell’offerta e della domanda insieme) che deve appunto organizzare prima il blocco e poi la ripresa della produzione. Ora, qui, ci troviamo di fronte il rischio di una doppia temporalità come nella possibile incoerenza tra l’oggi (non condizionalità) e il domani (nuova condizionalità?), per il MES, che alcuni temono. La doppia temporalità di cui parlo è quella tra il dire, “ora facciamo in modo che l’economia riparta rapidamente”, e aggiungere “dopo ragioneremo dei suoi contenuti”. È un’illusione. E un’illusione pericolosa.

È pericolosa già per solo questo fatto. In queste settimane abbiamo vissuto una scelta brutale, tra salute ed economia, numero di morti da tollerare affinché il costo in termini di produzione e reddito non fosse troppo alto. Per ora, con molte contraddizioni (e lo scandalo del lavoro che è continuato in molte delle produzioni non fondamentali), ha prevalso l’esigenza di difendere la salute, di rendere minore la mortalità. Ma il proposito di promuovere una dinamica del reddito a V (crollo e subitanea ripresa per tornare dove si era), o al peggio a U (con uno stimolo dilatato nel tempo), al proseguire della crisi, che non sarebbe né affrontata né compresa davvero, può facilmente determinare una revisione di quel trade-off. Visto che produzione comunque significa occupazione e salari, e vista magari la delusione rispetto ai risultati sperati dal lockdown, il rischio cresce che aumenti il costo che si è disposti a pagare in termini di salute, o brutalmente di morti. Il resto della società dovrà pur andare avanti: questo si dirà.

8. Se non è una crisi keynesiana, che crisi è?

Per comprendere l’insensatezza di ragionare in una logica dei due tempi, bisogna tornare da un altro angolo visuale alla questione fondamentale: che crisi è questa? Passo qui al quinto movimento del mio ragionamento. Da ciò che precede risulta che questa crisi non è keynesiana, quasi in nessun senso. Non è una crisi di domanda, e quindi non se ne esce “keynesianamente”. Lasciatemi, per un attimo, tornare al filo di ragionamento che c’è nei miei lavori da sempre Se guardiamo alle grandi crisi che hanno attraversato il capitalismo, Keynes non è molto utile. Voglio essere chiaro: non possiamo che scrivere e pensare dopo Keynes, ma in qualche misura anche contro e oltre Keynes.

La grande crisi capitalistica di fine Ottocento è da caduta tendenziale del saggio di profitto in senso abbastanza tradizionale, perché aumenta il rapporto macchine-lavoratori e questo deprime la profittabilità (il capitale al denominatore è troppo alto perché il plusvalore al numeratore sia sufficiente: sovrapproduzione di capitale). Negli anni Trenta del Novecento, si ha un problema di realizzazione del plusvalore (il plusvalore potenziale è troppo alto, il problema è al numeratore del saggio del profitto: sovrapproduzione di merci). Se volete, Keynes questa volta c’entra, almeno in parte.

Dalla metà degli anni Sessanta e negli anni Settanta del Novecento la crisi non è dal lato della domanda, è piuttosto un problema dal lato dell’offerta, nuovamente dal lato della profittabilità, ma (a parte il conflitto tra paesi industrializzati e produttori di materie prime, e scontato il conflitto intercapitalistico) la ragione centrale della crisi sta nelle lotte della classe lavoratrice sul terreno della distribuzione, e ancor di più sta nelle lotte nella produzione e sull’uso della forza-lavoro (parte essenziale furono allora le lotte sul corpo dei lavoratori: la “salute non si vende”). Il plusvalore estratto non è “abbastanza”, ma senza alcun oggettivismo meccanicistico.

La crisi del 2007-2008 è, ancora una volta, una crisi dal lato dell’offerta, però questa volta dell’offerta di finanziamento (come si dice nella letteratura anglosassone, non sempre in modo appropriato, una crisi del funding). Il modo con cui le attività venivano finanziate era a brevissimo termine, e collassa facendo crollare l’intero edificio. È una grande crisi finanziaria, ma è legata a quel capitalismo dei fondi e dei money manager che ha incluso in modo subordinato le famiglie nell’universo finanziario del capitale, e che per mio conto ho definito come una sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito.

Almeno dagli anni Sessanta-Settanta del Novecento, il nodo sociale della crisi – di quella come di tutte le successive – è “cosa”, “come”, “quanto” e “per chi” produrre. E qui sta la continuità più profonda di questa con le crisi precedenti. Qui sta l’impossibilità di separare i tempi, il tempo della “ripresa” e il tempo della “riforma” (ma in realtà rivoluzione) dei modi e contenuti della produzione. Non si tratta evidentemente di rifare il mondo da capo, di distruggere lo stock di capitale ereditato; si tratta però di un ri-orientamento radicale di produzione e consumo. Non farlo assieme con la ripresa significa non farlo mai.

È una crisi che in questo rimanda alla guerra, questa volta davvero la Guerra, la Prima Guerra Mondiale, perché allora si pose il problema di una “pianificazione” (qui più di Marx o Lenin, conta Otto Neurath): ma come chiarisce il mio discorso sulla crisi degli anni Settanta, non basta invocare Leontief, non basta cantare le lodi del piano, se non vi è un legame stretto, e vincolante, con il soggetto sociale “lavoro”. Ma rimanda anche al Grande Crollo degli anni Trenta, alla via di uscita (non strettamente keynesiana) che fu il New Deal, e che, come dirò in conclusione, va riletto alla luce di una radicalizzazione della minskyana “socializzazione dell’investimento”. Il nodo del “cosa”, “come”, “quanto” e “per chi” produrre lo poneva – a suo modo, certo: ma come ci manca in queste settimane – anche Greta Thunberg. E dunque la connessione con la questione della natura è immediata.

9. Un paio di conclusioni, per iniziare a ragionarne: una rivoluzione dal lato dell’offerta

Il sesto movimento è quello di un primo ragionamento sulle prospettive. Se quest’ultima non è una crisi keynesiana e non basta un richiamo generico al piano, che non sia legato a lavoratori e lavoratrici, a un vincolo sociale, come ce la rappresentiamo? Consentitemi di ricorrere a due citazioni alquanto inusuali. Nella teoria economica, lo sapete, a destra di Keynes, c’è il monetarismo, cioè Milton Friedman, e alla destra di Friedman c’è Robert Lucas ovvero la scuola della Nuova Macroeconomia Neoclassica. Ancora più a destra, cosa troviamo? La scuola del Ciclo Economico Reale, la quale sostiene che ci sono degli shock tecnologici, come arrivassero dal cielo, e la banca centrale non può che offrire endogenamente la moneta che viene domandata, mentre le economie si devono aggiustare per conto proprio. Qualsiasi intervento dello Stato è deleterio, ci si trova sempre sul sentiero ottimale definito dalle scelte volontarie dagli agenti.

Bene, uno degli interventi più interessanti nella crisi è stato un tweet di John Cochrane, che fa parte di questa corrente. Il 4 aprile ha scritto, in sostanza, che il virus, certo, potremmo arrivare a contenerlo, dimenticandoci così che siamo entrati in un mondo dove le pandemie rischiano di essere eventi “normali”, e per un po’ torniamo a vivere come prima, ma dopo quello stesso virus o altri ritornano con più forza. Questa è in realtà l’ipotesi pessimistica. L’ipotesi ottimistica è che non si dimentichi: che ci si renda conto che il virus è come un grandioso shock tecnologico negativo, dunque dal lato dell’offerta, che non può che cambiare completamente il modo di vivere, il tipo di domanda, di trasporto, di consumo.

Dovremo imparare a convivere con test e ricorso continuo al sistema della sanità. Valgono di più i lavoratori della logistica, gli infermieri, e così via. È un mondo ad alta intensità di lavoro (con tanti saluti all’ennesima versione della scomparsa del lavoro a causa dell’intelligenza artificiale) e gli individui si devono “aggiustare” – per lui miracolosamente, senza intervento della politica. Bene, credo che abbia capito quasi tutto, salvo che la società non si aggiusta via mercato. Ma quello che non possiamo non porci come compito ora, non domani, è una rivoluzione dal lato dell’offerta. Compito che è politico e urgentemente programmatico.

10. Un paio di conclusioni, per iniziare a ragionarne: una rottura radicale

Seconda citazione che potrebbe sorprendere. Prendiamo il Financial Times, il grande quotidiano della borghesia inglese e internazionale. Il 3 aprile pubblica un editoriale il cui titolo proclama che “il virus espone la fragilità del contratto sociale”. Al centro dell’articolo si legge che occorrono riforme radicali che rompano con gli ultimi quattro decenni. I governi devono abituarsi a essere più attivi e servizi pubblici come l’istruzione o la sanità devono ora essere visti non come passività, ma come un investimento sul futuro della società. Non ci si può permettere più mercati del lavoro caratterizzati da una diffusa precarietà, il lavoro deve tornare a essere garantito. È necessaria una sostanziosa redistribuzione, proposte come il basic income o tasse patrimoniali (sulla ricchezza) possono farne legittimamente parte. Questo – è scritto nero su bianco nell’editoriale – non va pensato domani, va pensato oggi, iniziando a costruirlo. Come al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Si citano il rapporto Beveridge (che dette origine al welfare postbellico, e che è del 1942) e la conferenza di Bretton Woods (che dette origine al sistema di cambi fissi e, ricordiamolo, comprendeva di fatto una repressione della finanza, che è del 1944). Il Financial Times finisce con l’essere molto più radicale delle nostre sinistre o degli economisti radicali.

11. Le dernier metro

Pochi mesi fa, con Francesco Garibaldo, abbiamo scritto un pezzo sull’Europa, destinato alla rivista di Slavoj Žižek (Crisis and Critique) e che portava avanti il discorso del nostro libro L’euro al capolinea?. Lo abbiamo intitolato Le dernier metro. In questo testo sostenevamo che in Europa, dal 2013-2014, si era usciti dalla crisi anche via esportazioni nette, e ciò sarebbe stato foriero di altra crisi. L’eurozona ce l’aveva fatta a uscire dalla crisi generalizzando il modello germanico. Tutti i paesi, anche quelli della periferia, esportavano nel resto del mondo, sicché le esportazioni nette di ogni paese dell’area fuori dall’eurozona erano in attivo, e per l’intera area le esportazioni nette sul prodotto interno lordo dell’eurozona avevano raggiunto il 4%. Storicamente non avevano mai avuto uno scarto sostanziale da un saldo nullo. Ora la situazione era cambiata.

Questo stato delle cose, lungi dal segnalare una forza, rivelava una debolezza, in quanto consegnava il continente europeo al traino della domanda estera, e proprio nel momento in cui la temuta (e poi realizzata) Brexit, le incertezze dell’Italia, la crescita del sovranismo, la presidenza Trump, il ritorno del protezionismo, la crisi dell’automotive, addensavano nuove nuvole, il che ci portava a prevedere difficoltà crescenti e una possibile grave crisi in Europa. Così è stato già dal 2019, prima della crisi del coronavirus, con il prodotto interno lordo tedesco in forte riduzione, e gli effetti conseguenti sull’Italia e sull’Europa.

Chiudevamo quello scritto scrivendo che questo è il peggiore dei tempi, ma è questo anche il migliore dei tempi. Si avvicinava quella che definivamo una “tempesta perfetta”: e però è chiaro da molto tempo che l’eurozona (nella sua tecnocrazia monetaria, nella sua testa politica) non cambia se non è messa al muro. In questo senso, e senza alcun ottimismo, il peggiore dei tempi poteva rivelarsi il migliore che ci era consegnato. Ovviamente, non ci aspettavamo il coronavirus. Ma la pandemia non fa che moltiplicare per mille la portata del discorso rispetto a come lo pensavamo noi. Il tempo è ora.

Visto che stiamo discutendo di ri-orientare la produzione orientandola a valori d’uso immediatamente sociali, visto che questa è la sfida, un tempo la avrei messa così: che le condizioni estreme in cui viviamo segnalano la “maturità del comunismo”. Ancora oggi la penso così, anche se, lo so, non è più rispettabile dirlo. Maturità di un comunismo inattuale: perché ci deve essere chiara l’incapacità nostra di essere all’altezza di quel problema. Ma pur sempre quello è il problema. Ciò che ci viene contro, ciò che rivelano i movimenti del mio ragionamento, è l’assoluta urgenza di un comando sulla moneta e sulla produzione, sotto il controllo “dal basso” di una soggettività sociale, che per me vede al centro il lavoro, per poter pensare e iniziare a praticare un modello alternativo dello stare insieme.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.