La città e la politica

case occupateA proposito di Carlo Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli 2019)

di Massimo Ilardi

Al termine di un lungo percorso di ricerca che ha visto la pubblicazione di due volumi collettivi da lui curati, Roma. Città autoprodotta (manifestolibri 2014) e Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma (Donzelli 2016), Carlo Cellamare tenta, con quest’ultimo libro, un’operazione complicata: dare veste teorica alle sue indagini sul campo intorno a quei fenomeni sociali di autorganizzazione, di occupazione di spazi, che costruiscono la città fuori dalla pianificazione e dalle politiche pubbliche, e che hanno nel territorio romano un laboratorio diffuso di sperimentazione. Un’operazione resa difficile dalla contraddittorietà, in certi casi dalla ambiguità, di tali fenomeni che non si fanno facilmente rinchiudere dentro categorie teoriche o forme politiche costituenti.

Cellamare ne è consapevole e, fin dall’inizio del suo lavoro, pur rimarcando la creatività e la capacità di azione che sono all’origine di questi processi, mette in guardia i suoi lettori: “La visione romantica di una città prodotta dall’azione dei suoi abitanti, in termini positivi e collaborativi, crolla miseramente nel confronto con la realtà” fatta anche di interessi privati ed economici che subordinano l’interesse pubblico (p. 5). Un ammonimento opportuno, ma che poi lui stesso in alcuni casi non segue proprio per le difficoltà prima indicate, e anche e soprattutto per le sue convinzioni che cercano di inserire questi fenomeni dentro una visione politica capace di mettere in discussione e superare il modello liberista di città. Obiettivo legittimo e condivisibile che, per essere praticabile, deve però necessariamente rispondere ad alcune domande: se, come afferma Braudel, “ogni realtà sociale è per prima cosa spazio”, pratiche come l’autoproduzione, l’autogestione e l’occupazione sono le più idonee a costruire una spazialità nuova e alternativa? Se sì, come riescono a entrare in sintonia con il resto del territorio? E ancora: perché non sembrano approdare ad alcuna soggettività antagonista e a nessuna forma politica che fuoriesca dalla pura e semplice amministrazione dei luoghi?

Sono a mio parere domande essenziali che dovrebbero trovare delle risposte, altrimenti si rischia di descrivere semplicemente una realtà interessante per il solo fatto di esistere. Non è questo il rischio che corre Cellamare, ma il lavoro di molti giovani ricercatori certamente sì, perché attratti da queste pratiche in parte illegali e soprattutto antistituzionali non si pongono né quelle domande né quelle altre che lo stesso Cellamare esorta a fare: appropriazione di che cosa, da parte di chi, a che titolo? Per cercare di rispondere, è necessaria una diversione: dobbiamo uscire dal monopolio della dimensione economica (“estrattivismo”, nel senso di messa a valore del territorio, speculazione immobiliare, gentrificazione) con cui si vorrebbe spiegare tutto, ma che non è più sufficiente a fornire una motivazione credibile circa la distanza crescente tra i territori e la politica. D’altra parte, non si può criticare il modello liberista e collocarsi poi sul suo stesso terreno per combatterlo. Per confrontarsi e confliggere con i poteri economici è assolutamente necessario il passaggio a una dimensione politica. Più di un secolo di sconfitte dovrebbe avercelo insegnato. In altre parole, non è possibile fare ricerca sul territorio che, come afferma Carlo Galli (Spazi politici, il Mulino 2001 e Sovranità, il Mulino 2019), è una categoria del pensiero politico, senza porsi la questione dei rapporti reali di potere, della irriducibilità del conflitto, della immutabilità della natura umana come presupposto elementare di un pensiero specificamente politico: tutto un retroterra da cui prendere le mosse per verificare l’emergere o meno di nuove soggettività.

Il primo nodo – difficile da sciogliere data la diversità di posizioni che mi separano dall’autore, ma che comunque va chiarito – è quello che riguarda il “politico” e la politica. È senza dubbio vero ciò che scrive Cellamare, vale a dire che “la componente politica, ovvero quanto le esperienze siano critiche rispetto al modello di sviluppo e propongano – praticandola – una visione alternativa di città, costituisce la discriminante fondamentale tra le pratiche di autorganizzazione” (p. 131). Ma quando poi l’autore proietta questa “visione alternativa di città” su processi che hanno pretese dialettiche totalizzanti perché cercano attraverso universali etici che non hanno confini – quali la solidarietà, la fratellanza, i beni comuni, l’Altro, la convivenza, l’accoglienza, un “uomo nuovo” – di mediare con il disordine e le disuguaglianze, la politica finisce col rimanere fuori da queste esperienze, che vengono piuttosto fatte giocare sul piano dell’etica.

Di conseguenza la stessa definizione data del “politico” non è convincente: “non più come categoria autonoma – afferma l’autore – con le sue regole specifiche, ma come in-between, a partire cioè dal ‘sociale’, come attributo del sociale, del vivere in relazione, in una sua forma che si potrebbe considerare più ‘basale’ […] che affonda le radici nel sociale, nella dinamica delle relazioni tra persone che si instaurano nella convivenza tra diversi” (p. 140). Ma la crisi del “politico” è avvenuta esattamente all’interno di quel percorso che Cellamare vorrebbe fargli intraprendere e che, in verità, ha già intrapreso. Da qui la sua perdita di autonomia che l’ha precipitato nelle grinfie dell’economico. Schiacciarlo su un “sociale” che assume gli ideali come principio di coesione e di lotta, costringerlo addirittura a diventare un attributo di questo, vuol dire togliergli la funzione sua propria, d’innesco dell’azione politica. E questa funzione il “politico” può svolgerla in quanto ha una sua autonomia, le proprie regole, non è “un attributo del sociale” ma qualcosa che è provocato dall’intensità del conflitto, indicando uno squilibrio, un alto livello di sconnessione tra diritti e realtà – oggi potremmo anche dire tra i desideri e la realtà – come principio di inimicizia. Inoltre esso segnala una scissione irrisolvibile tra il mondo delle idee e la realtà stessa, il fallimento di ogni sintesi che nessuna etica dell’intenzione potrà mai sanare. L’origine della politica è qui: senza scissione e conflitto non c’è politica. Di più: l’azione politica implica la consapevolezza che ciò che tenta di misurare si affaccia su una realtà caotica indefinibile, e che il delimitato e il conoscibile razionalmente convive con la dismisura e il concreto non razionale (Carl Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino 1972).

La politica e le sue soggettività hanno dunque a che fare con il particolare, la contingenza assoluta, l’incertezza, non con gli universali. Questi fanno parte di altri mondi, quello dell’economia, della morale, della religione. Essa si muove invece tra gli interessi e i conflitti di interessi, che deve sapere analizzare e cercare di governare; tra questi deve sapere decidere, trovare i suoi strumenti e la sua ragion d’essere. In altre parole, che la città debba accogliere il diverso, dialogare con l’estraneo, produrre spazi e beni comuni, accettare modi di vita differenti è giusto, ma deve trattarsi di scelte dettate da ragioni politiche e non da principi etici o addirittura dai buoni sentimenti.

Le periferie che Cellamare studia sono territori di frontiera, indeterminati, senza regole, senza storia, senza luoghi pubblici, sono spazi vuoti in cui si proietta senza impedimenti quella smisurata interiorità dei suoi abitanti, fatta ancora di “fame, sesso e denaro” di pasoliniana memoria, che stabilisce le relazioni sociali, dove i rapporti di potere agiscono senza alcuna mediazione, dove la cultura distruttiva del consumo impone le forme di vita e quelle della quotidianità. Eppure questa situazione non fa che aumentare la loro valenza politica, perché la politica può nascere solo nella crisi e nella decisione su di essa. Cercare di dare una forma a questa anarchia del “politico” contemporaneo – che nuota in una tale frammentazione di poteri da produrre, si direbbe, un nuovo medioevo – è il compito disperato dell’azione politica che è invece incompetente a parlare di nuova umanità o di solidarietà. Quando la politica sposa la morale può accadere che alla fine sia inevitabile che si finisca con la ghigliottina o con i gulag o con l’inquisizione. Non c’è infatti un limite agli imperativi morali e ai valori che si vogliono imporre.

Un’ultima considerazione. Cellamare scrive che “le forme di ri-appropriazione dello spazio e dei luoghi si configurano come ‘pratiche di libertà’ nella misura in cui instaurano una tensione, anzi una rottura […] con gli usi predefiniti, con i condizionamenti alla vita quotidiana dati dalla strutturazione dello spazio” (p. 14): è evidente che si riferisce qui agli usi e ai condizionamenti del mercato. Nell’assenza dello Stato e nel vuoto della politica, è infatti il mercato a dettare le regole. Ed è contro di queste che si attivano le pratiche di libertà, che assumono così un forte significato implicitamente politico proprio perché, a differenza degli universali, rispondono sempre a domande concrete: dove, quando, chi domanda libertà. In questo modo la centralità del territorio può essere riconquistata – e con essa l’azione politica. Ma occorre fare attenzione, perché la domanda di libertà non s’innesta immediatamente sulla questione sociale. La libertà ha poco a che fare con la giustizia, l’uguaglianza o la solidarietà. È una libertà materiale, concreta, che si proietta sul territorio, su questi territori delle periferie urbane più che in altri, cercando anche fuori dalla legalità nuovi spazi per essere esercitata. Se, però, come ho detto all’inizio citando Braudel, “ogni realtà sociale è per prima cosa spazio”, e se l’esercizio della libertà può avvenire solo attraversando spazi, allora la conoscenza sul come e quando si possano incontrare rivendicazioni sociali e pratiche di libertà sarà la grande scommessa di una nuova teoria del conflitto.

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