di Antonio Tricomi
[Articolo uscito sulla rivista on-line Fatamorgana]
«Il caos della plebe – in cui precipitano i frantumi di classi decomposte, culture in declino, popoli vinti – è esso stesso un prodotto dello sviluppo del capitale. I senza voce hanno perso una parola che possedevano, sono stati espropriati della identità originaria, e non hanno accesso al linguaggio astratto della modernità del capitale».
Questa la tesi di fondo propostaci da Mario Pezzella in Altrenapoli (Rosenberg & Sellier). Libro che non ritrae il nostro tempo – una sorta di riaffiorato medioevo: in cima, una casta socialmente impune di signori e, alla loro mercé, un’indistinta massa di monadi vieppiù umiliate nella propria dignità – come un mero incidente di percorso sulla via della modernizzazione capitalistica. Invece, esso lo giudica l’esito naturale del plurisecolare dominio di un capitale che, «nella sua storia passata e presente», sempre si è confermato «un processo attivo di privazione di diritti, di soggettività e di parola», costringendo «interi ceti sociali che possedevano un “saper fare” specifico» a scivolare «nell’amorfia della plebe», a veder schiantato il proprio «statuto simbolico», a stiparsi in «un non essere di compattezza e mutismo». Gli attuali fenomeni di plebeizzazione patiti, nel mondo intero, dalle varie comunità nazionali discendono cioè, per Pezzella, dall’ormai incontrastato processo di accumulazione capitalistica, pronto altresì a convertire in «prodotto» ciascuna nostra città, se «lo spazio in cui si svolge la vita quotidiana è divenuto esso stesso merce in ogni sua piega». Se «l’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde poliedricamente in più centri commerciali». E se tale «processo di urbanizzazione è dunque al contempo di ruralizzazione: l’amorfa continuità dell’una nell’altra sostituisce l’antica dialettica di città e campagna».
È vero: Pezzella anzitutto esamina il modo in cui, dal secondo dopoguerra ad oggi, vari scrittori (e, in particolare, Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria, Ermanno Rea, Rino Genovese, Elena Ferrante, Roberto Saviano, Wanda Marasco, Francesco Nappo) e non pochi cineasti (da Francesco Rosi e Roberto Rossellini a Mario Martone e Matteo Garrone) hanno ritratto la plebe napoletana o il difficile rapporto con essa stretto dagli intellettuali della città. Egli tuttavia lo fa per indicare, nella traiettoria tracciata dal capoluogo partenopeo, una cartina al tornasole dei più ampi fenomeni socioculturali appena riassunti. Ne deriva che siamo allusivamente invitati a ritenere lo stato presente non della sola Europa come il risultato, quasi, di un lungo processo, infine compiutosi, di napoletanizzazione del globo. Così come, per decifrare le retoriche che un tale esito hanno accompagnato e contribuito a determinare, siamo richiesti di accogliere quella che – nelle pieghe di un’attenta analisi di svariate opere licenziate dagli autori succitati – il filosofo ci offre quale sua principale proposta ermeneutica: individuare in Rea, più che in La Capria, il maggior interprete della storia recente della propria città natale. In pratica, credere sì irrinunciabile un testo quale L’armonia perduta, ma poi, almeno tra quelle letterarie, scorgere in Mistero napoletano l’opera fondamentale sulla Napoli di ieri, di oggi.
Le tesi avanzate da La Capria in quella sua “mitografia conoscitiva” sono note, e Pezzella le riepiloga con zelo. A Napoli la storia si sarebbe fermata nel 1799, quando il fallimento della rivoluzione lacerò l’immagine della “città interiore” serbata da ogni napoletano, mise al bando la cultura alto-borghese che legava all’Europa il capoluogo partenopeo e rese quest’ultimo il feudo di una piccola borghesia tanto assillata dalla “paura della plebe” quanto incline, per restaurare la solo sognata “armonia” di un tempo, a fingerla raggiunta. A spendersi, cioè, in quella “Recita Collettiva” che l’autore di Ferito a morte denomina “napoletanità”, maschera identitaria con la quale la piccola borghesia locale, impossessatasi delle leve del comando, ha asservito le sempre più folte schiere di emarginati, riducendo “il feroce plebeo dei giorni della rivoluzione” al “bonario personaggio” delle commedie di De Filippo o rendendo “affabile e accattivante” la lingua dei bassifondi, sì da trasformare via via la plebe in ciò che un simile dialetto le imponeva di essere.
Per Pezzella, tale diagnosi ha il merito di spiegare, e altresì di condannare, l’ostilità di molti intellettuali partenopei, e della Ortese in primis, verso la plebe cittadina, che essi tendono, come fa Compagnone in un poemetto, a reputare una forma di «estraneità all’umano», un’epifania di quel “reale” che Lacan pensa «privo di qualsiasi articolazione simbolica» o, addirittura, «l’archetipo della Madre divoratrice», il «lato in ombra» della mitizzata «natura splendida» di cui Napoli sarebbe figlia. E ha pure il pregio, la “psicostoria” tentata da La Capria, di invalidare elogi «della premodernità di Napoli» quale quello affidato da Pasolini alle Lettere luterane, se lo sceneggiatore di Mani sulla città – mirabile atto d’accusa contro una «classe dirigente storicamente determinabile e di basso livello» – crede invece che nella sua terra d’origine «si sia realizzata solo una mezza modernità», e quindi una «modernità mal riuscita, fatta di speculazione e consumismo, senza conquista di diritti civili e di maggiore cittadinanza». Tesi che segna però anche la distanza tra lo sguardo di Pezzella su Napoli e quello di La Capria, se, per il primo, non si tratta, come il secondo vorrebbe, di auspicare che la loro città natale ripudi la propria male intesa modernizzazione capitalistica sì da accedere a una modernità finalmente compiuta, simile a quella che i Paesi avanzati avrebbero conosciuto già all’alba della rivoluzione industriale. Chi abbia letto il primo libro del Capitale di Marx, nota infatti Pezzella, sa che la rivoluzione industriale «ha operato la distruzione di saperi e forme di vita più violenta che ci sia mai stata nella storia dell’umanità». E che dunque «una modernità accettabile implicherebbe una forma di vita e di civiltà radicalmente alternativa a quella del capitale».
Ecco allora in che senso Altrenapoli si rivela un libro reiano. In fondo, La Capria è un riformista, convinto che i mali della sua città, e dell’Italia tutta, derivino dall’indisponibilità, dell’una come dell’altra, a lasciarsi guidare da un’alta borghesia colta e liberale, laica e progressista. In pratica, da un ceto che tali qualità, nel nostro Paese, non le ha però dimostrate pressoché mai. Invece, da Mistero napoletano emerge «il sogno di un comunismo eretico e libertario, quello in cui credevano Rea e i suoi amici». Un sogno infrantosi, nel secondo dopoguerra, «contro l’ottusità dello stalinismo» delle classi dirigenti del pci non solo locale, che avrebbero dovuto dar voce ai lavoratori ma, sminuendone le istanze culturali, hanno semmai contribuito a renderli plebe. Giacché Rea, non avendo, a differenza di La Capria, «una visione di per sé positiva della modernizzazione capitalistica», non considera quest’ultima «l’occasione perduta», da Napoli e dall’Italia, per intercettare il «corso pulsante della storia». Viceversa, «la sua modernità è quella operaia e comunista, che si dissolve in modo definitivo insieme all’Ilva di Bagnoli, la grande fabbrica, di cui ha descritto il declino nella Dismissione».
Tutto si tiene. Saviano prima e Garrone poi hanno scorto nella «compresenza di arcaismo e modernità tecnica» la vera «caratteristica del nuovo potere criminale» egemone a Scampia o Secondigliano, e ci hanno nondimeno ricordato che affine a quello camorristico è «il comportamento dominante delle nuove élites tecnico-politiche», il capitalismo avendo ormai generato uno «spettacolare», per dirla con Guy Debord, e onnipervasivo «sistema» malavitoso. Se dunque l’intero Occidente somiglia oggi alla Napoli di Gomorra, è anche perché, ci suggerisce Pezzella, nessuno spettro di una qualche utopia egalitaria si leva, in giro per il mondo, a turbare i placidi sonni dei padroni.