di Enzo Scandurra
Tanti anni fa, di ritorno dalla Sardegna su uno di quei grossi traghetti di linea, mi capitò un episodio quanto mai “sorprendente”. Mentre ero in coperta seduto su una poltrona, il traghetto cominciò ad avere sbandamenti inquietanti. Stupito guardai gli altri passeggeri che, anche loro, erano rimasti meravigliati e preoccupati da quell’insolito procedere della nave. Tutti insieme salimmo sul ponte e ci si parò uno spettacolo curioso. Il traghetto aveva preso a fare dei cerchi concentrici intorno a una piccola imbarcazione a vela. Incuriositi chiedemmo a un marinaio che cosa stesse succedendo, e lui ci rispose che c’era una imbarcazione che era rimasta in panne e per la legge del mare il nostro traghetto doveva assicurare protezione fino a quando non fosse arrivata una motovedetta della guardia costiera.
Ho ripensato tante volte a quell’episodio e mi è parso addirittura “esagerato” che un grande traghetto fosse costretto a deviare dalla sua rotta e a girare in tondo solo per assicurarsi che le persone in panne sulla barca a vela non corressero il rischio di annegare. Questa legge, pensai allora, doveva essere molto antica e frutto della saggezza di tanti marinai che, nel tempo, avevano prodotto un comportamento solidale con chiunque rischiasse la propria vita in mare. Mi sorprese, allora, che a fronte di tante leggi scritte ce ne fosse una accettata e condivisa dagli uomini di mare di qualunque paese, un’antica tradizione, un codice di comportamento, quasi un codice d’onore, si potrebbe dire, ma che andava sempre rispettata al di là di questioni politiche.
Fondata o meno questa leggendaria legge del mare, esistono dei trattati internazionali di diritto marittimo che obbligano al soccorso. Tra questi c’è la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas), la Convenzione internazionale sul salvataggio e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (Sar). La Convenzione Sar di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. Nella Convenzione Unclos del 1982 – Obbligo di prestare soccorso – all’articolo 98 si legge:
I. ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri, ovvero:
- presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
- proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
- presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.
Dunque, lo spirito della vecchia legge di mare continua ad essere presente anche in tempi moderni.
Quella che a tutti pare una legge sacrosanta, frutto di un’antica consuetudine giunta fino ai nostri giorni, è invece diventata, oggi, oggetto di contesa politica con la falsa motivazione della sicurezza degli Stati. In un contesto in cui la crisi ambientale, attraverso i cambiamenti climatici, appare la minaccia più grave per l’umanità, i migranti non possono che essere considerati migranti ambientali. Perché i loro territori sono devastati, le loro terre desertificate dal furore predatorio del modello occidentale, e dalla siccità. Ed è a causa di quest’ultima che si sono aggiunte le nuove guerre per l’approvvigionamento dell’acqua.
Il ministro Salvini ha deciso di ingaggiare una lotta a tutto campo nei riguardi dell’accoglienza che dovrebbe essere riservata a coloro che, fuggendo dalle rovine in fiamme dei loro territori, chiedono asilo e protezione politica a quegli Stati che per centinaia d’anni li hanno derubati delle loro risorse. Il giudizio che gli esperti danno della direttiva firmata dal ministro degli Interni per impedire l’approdo nei porti italiani delle navi con i migranti, è che essa sia più che un atto giuridico un vero e proprio manifesto politico contro la solidarietà. «Si dà una lettura parziale della normativa internazionale e per di più di difficile se non impossibile applicazione», spiega ad esempio l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione.
Ma il caso della nave Mare Jonio, dell’organizzazione Mediterranea, approdando all’isola di Lampedusa con il suo carico di profughi, ha sconfessato queste velleitarie misure di sicurezza che avrebbero voluto la chiusura dei porti.
La maggior parte dei profughi proveniva dalla Guinea; quattordici di loro arrivavano dal Senegal, nove dalla Nigeria, sette dal Gambia, due dal Camerun e uno dal Benin, e tra loro molti minori. Giunti nel Centro sono stati rifocillati; alcuni hanno pregato. Agli operatori hanno raccontato storie di violenze e torture; uno di loro ha riferito di avere attraversato con i barconi il Canale di Sicilia ben cinque volte e ogni volta di essere stato rispedito in Libia e ha mostrato i segni sul corpo dei maltrattamenti subiti nei campi libici. «Pensare che la Libia sia un porto sicuro e riconosciuto dall’Italia e dall’Ue è un’ipocrisia» afferma il medico Pietro Bartolo, che ha verificato le condizioni di salute dei migranti. «Abbiamo visto come la Guardia costiera libica tratta queste persone quando le ricupera, ha aggiunto il medico – una parte li lascia in mare, una parte li scuote in mare come se fossero cimici e poi li picchia quando li mette a bordo. Questo non è rispettoso dei diritti umani».[1]
La tentazione al respingimento di migranti e richiedenti asilo ha una storia antica e meschina, essa ha già conosciuto un episodio, oggi totalmente dimenticato, quindici anni fa.
Nel 2004 la nave Cap Anamur, dell’omonima Ong di Colonia, dopo aver tratto in salvo dalle acque del Canale di Sicilia 36 profughi sudanesi, venne bloccata in mare per ben tre settimane. Stefan Schmidt, il capitano, racconta: «li soccorremmo avvisando le autorità italiane e li salvammo. Poi per tre settimane ci bloccarono in mare aperto perché non ci volevano fare sbarcare sulle coste siciliane e quando finalmente ci fecero attraccare a Porto Empedocle ci arrestarono per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». E prosegue: «solo dopo cinque anni, dopo il processo, ci assolsero. Non avevamo compiuto nessun reato, avevamo salvato soltanto delle vite umane che stavano per annegare».[2]
[1] Marsala A., Mare Jonio. Indagato il comandante e nave sequestrata, da: il manifesto del 21.03.2019
[2] Da: la Repubblica del 29.04.2017