di Rino Genovese
Il conflitto sociale aperto in Francia dai “gilet gialli” dura ormai da tre mesi, non accenna a placarsi, e – sebbene la partecipazione alle manifestazioni, com’è fisiologico, sia in calo – non pare che lo sia la violenza degli scontri. Di fronte all’assurdo e criminale uso delle flash-ball da parte della polizia, che provocano lesioni anche gravi, i manifestanti hanno messo in pratica una distruttività rivolta contro le cose, e si sono organizzati con squadre di pronto intervento capaci di soccorrere i feriti. Questa e altre forme di solidarietà nella lotta – tutt’uno con l’autorganizzazione – sono un aspetto rilevante e perfino commovente di qualsiasi movimento strutturato, come ormai può essere definito quello dei “gilet gialli”.
Ma la sua ambiguità politica resta intera. Direi che è costitutiva di un’insorgenza nata da una rivolta antifiscale (in particolare riguardo a una tassa “ecologica” sui carburanti), su un piano quindi ridistributivo: un movimento che individua la controparte nel governo e nel presidente della Repubblica (per via di quella “monarchia repubblicana” caratteristica del sistema francese, e certo a causa delle sue politiche che, per fare un esempio, hanno abolito la “tassa di solidarietà sulla fortuna”), ma non la individua nel padronato, tutt’al più nella finanza e nelle banche, secondo una postura consueta nei populismi, di destra o di sinistra che vogliano essere. È un movimento bianco, anche se con una forte presenza femminile, che non si cura minimamente di coinvolgere i dimenticati delle banlieues (gli emarginati “di colore” che nel 2005 avevano dato vita alle “notti dei fuochi”), e neppure cerca un’alleanza con il sindacato (quello dei ferrovieri aveva promosso nel giugno scorso una serie di agitazioni non da poco, rimaste tuttavia scollegate dalla realtà sociale nel suo insieme), molto interno ai bisogni della provincia francese (che, per chi non la conosca, è un altro paese rispetto a quello della grandeur parigina), infine diviso politicamente sull’atteggiamento da tenere riguardo alle elezioni europee. Evidente, infatti, che una o addirittura più liste che si richiamassero ai “gilet gialli” sarebbero un favore fatto a Macron, perché frammenterebbero un’opposizione già, peraltro, molto frammentata; mentre, d’altro canto, la prospettiva di votare per i due aspiranti leader peronisti – cioè Mélenchon o Marine Le Pen – sancirebbe una perdita di autonomia da parte del movimento.
In questa situazione di obiettiva ambiguità, e di scarsa intelligenza politica, appare quasi scontato che i “gilet gialli” si prestino a essere uno specchio in cui chiunque può ritenere di trovare i suoi stessi tratti somatici. Così il fesso Di Maio, provocando uno scompiglio diplomatico piuttosto ridicolo, pensa di trovare in una (ancora ipotetica) lista elettorale “gialla” il partner ideale per un “populismo di centro” a corto di alleati nel prossimo parlamento europeo; e, al contrario, lo scaltro Negri con i suoi amici può vedere nel movimento “moltitudinario” la rinascita di una lotta di classe che c’è soltanto nei suoi sogni, dato che i “gilet gialli” non si muovono affatto su una linea anticapitalistica.
A noi, che consideriamo come nemico numero 1 da contrastare, nella società e nelle urne elettorali, i populismi e l’estrema destra, un movimento come quello francese dice poco – anche se riconosciamo che alcune delle sue rivendicazioni sono profondamente giuste. Il quadro politico generale non consente, al momento, altra speranza se non quella di un parlamento europeo che non sia dominato dalle forze che vorrebbero semplicemente annullare la costruzione, senza dubbio fin qui molto difettosa, dell’Unione. I “gilet gialli”, in questo senso, costituiscono più un intralcio che un contributo. Ci vorrebbe un’agitazione sociale capace di duttilità politica, in grado di contestare la politica del governo e, al tempo stesso, di tenere ben ferma la barra europeista. Un movimento che, in certe sue componenti, si lascia corteggiare dai grillini ha invece qualcosa che non va.