di Walter Tocci
[Il 7 febbraio scorso, nella Facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma “La Sapienza”, è stato presentato il volume di Alessandro Lanzetta, Roma informale. La città mediterranea del GRA (Manifestolibri, 2018). Sono intervenuti Enzo Scandurra, Carlo Cellamare, Massimo Ilardi e Walter Tocci. Riproponiamo l’intervento di quest’ultimo].
Questo piccolo libro pone al centro la più grande questione di Roma, cruciale e di enorme complessità: che cosa ne faremo della città del Grande Raccordo Anulare? Appaiono ormai fuori gioco tutte le tecniche, le ideologie, l’intero immaginario novecentesco attraverso cui in passato abbiamo pensato la questione. Si tratta di una vera e propria sfida, e Alessandro Lanzetta, con uno stile aforistico, allusivamente nietzschiano, cerca di mettere a punto gli strumenti che potrebbero servirci in futuro.
Anzitutto nel suo libro c’è una messa fuori causa del mainstream urbanistico, mediante una critica ironica, sprezzante – e sarebbe questo un lavoro da fare oggi in modo militante. Abbiamo infatti una frattura nel pensiero su Roma. Tutta la classe dirigente (di cui io stesso porto una parte di responsabilità) pensa ancora con le categorie del “modello Roma”. È un detrito che rimane, un maistream vecchio e superato. Le cose interessanti provengono invece da giovani studiosi, policy makers, avanguardie culturali, che restano però del tutto isolate.
C’è un rapporto molto forte nel testo di Lanzetta tra logica spaziale e forma di vita. È un approccio non estraneo alla scuola romana: in fondo il grande libro di Ludovico Quaroni, Immagini di Roma, costituiva già, in un’altra epoca, un tentativo di legare logica dello spazio e forma di vita. Ciò andrebbe riproposto riguardo alla Roma di oggi, dopo la sua mutazione: un compito difficile, certamente, ma anche affascinante, che implica un uso della storia del tutto estraneo allo storicismo. Lanzetta mette in pratica una storia di tipo benjaminiano: un impossessarsi dell’immagine del passato nel momento del pericolo. Ed è importante che, oltre che un ottimo saggista, sia anche un bravissimo fotografo. Nella parte iconografica del libro, ci sono infatti delle cose che solo le immagini possono restituirci: a un certo punto, per esempio, ci sono due fotografie, nella stessa pagina, in cui si vedono una palazzina a Talenti e un’altra, abusiva, a Valle Borghesiana – e sono simili, caratteristiche di una forma edilizia tipicamente romana che rimane se stessa pur in contesti urbanistici molto diversi. L’uso della fotografia è qui un theorein, cioè un vedere e pensare insieme. D’altro canto, anche qui, alcuni dei nostri maestri avevano già questa sensibilità. Ricordo Italo Insolera. Una volta, quand’ero assessore, gli chiesi di progettare il tram della linea 8: sparì per due mesi, poi ritornò portandomi una montagna di fotografie. Fotografare per lui era il primo momento del progetto, un vedere che era anche un pensare, un theorein appunto.
Questo libro in un certo senso è un segnavia in un discorso che ha alle spalle un lavoro più che decennale. Ricordo un numero del 2005 della rivista “Gomorra. Territori e culture della metropoli contemporanea” proprio sul Grande Raccordo Anulare, lo studio curato da Carlo Cellamare Fuori raccordo (Donzelli) e anche il libro di Marco Pietrolucci, che si spinge nella pars construens, Verso la realizzazione delle micro città di Roma (Skira). Il fatto poi che se ne sia accorto il cinema, nel modo più intenso con il film di Gianfranco Rosi (Sacro GRA del 2013), conferma la grandezza della questione.
Ora, un risultato di questo studio consiste nel prendere congedo definitivamente dalla coppia centro/periferia, che pure è stata molto importante in passato nella nostra cultura di militanti politici e di sociologi o urbanisti. Oggi questa coppia è inservibile. Sotto certi punti di vista il centro stesso è diventato una grande periferia, come mostrano alcune immagini folgoranti del libro. Quali sono oggi i progetti culturali rivolti al centro storico di Roma? La cosa più rilevante apparsa all’orizzonte di recente è stata il progetto del Divo Nerone, con quella struttura di tubi sul Palatino che nemmeno una festa dell’Unità alla Borghesiana avrebbe accettato. In fondo il centro di Roma è diventato un grande polo commerciale a bassa qualità e più inefficiente di quelli del Gra con i quali pretende di competere.
La parola “periferia” appare ormai troppo generica. Intendiamoci bene, ha ancora un significato, anzi sempre più amaro, sul piano socioeconomico, poiché tutti i parametri indicano un gradiente di diseguaglianze che crescono intensamente con la distanza dal centro. Ma dal punto di vista della forma spaziale la parola appiattisce le differenze più significative dell’area vasta. Si devono tenere ben distinte almeno due parti di quella conurbazione che siamo abituati a chiamare periferia. Si tratta di due logiche spaziali molto diverse tra loro: la città del Novecento, quella del piano regolatore del 1931 e della prima circonvallazione, che è ormai un tessuto urbano consolidato nonostante i suoi squilibri, e poi la città del GRA, la grande città anulare che mette in relazione Roma con la sua regione. È il grande tema rimosso dalla politica, dall’urbanistica e perfino dal discorso pubblico romano. Non ci sono progetti, anche perché il problema appare irrisolvibile, per certi versi drammatico, e certo non va eluso andandosene per le vie di fuga narrative o poetiche.
Voglio raccontare un’esperienza personale per illustrare tutto questo. Mi accorsi della drammaticità della questione “città del GRA” quando, alla fine degli anni Novanta, cominciammo a far funzionare i modelli di simulazione della mobilità urbana, con lo scopo di realizzare nuove infrastrutture. Era difficile aprire i cantieri, ma era piuttosto semplice inserire nel modello le infrastrutture come se fossero già state realizzate: ferrovie, metropolitane, tram, parcheggi e quant’altro, con un investimento di ventimila miliardi di lire. Risultato: la città storica raggiungeva i parametri di mobilità – accessibilità, tempi di percorrenza e modal split – di standard europeo; la città del Novecento raggiungeva livelli sufficienti anche se non ottimali; invece la città del GRA non migliorava per nulla, nemmeno dopo quel poderoso investimento pubblico. Quindi, con gli strumenti di oggi, non sappiamo come potrebbe risolversi strutturalmente il problema. E non è un caso che nessuno se lo ponga più. Se ce lo ponessimo, dovremmo escogitare delle soluzioni del tutto nuove. Neppure le metropolitane e le ferrovie sarebbero più sufficienti, dovremmo pensare a delle tecnologie ibride, come ad esempio il tram-treno sviluppato nella regione parigina.
Stiamo parlando, del resto, di una conurbazione di abitanti che si regge in piedi per un miracolo. Un milione di abitanti può vivere soltanto in quanto c’è questa autostrada che si chiama GRA. E non si tratta nemmeno più di Roma: il GRA è una grande piattaforma della regione, è un giunto cardanico che muove il rapporto tra città e regione. Svolge dunque un ruolo strutturale fondamentale, ma con una sua intrinseca debolezza.
Lanzetta ha anche il merito di analizzare acutamente l’immaginario urbano della città del GRA. Ciascuno di noi può farne un’esperienza personale. A me colpisce sempre un aspetto: si viaggia in automobile su un anello, un cerchio che di per sé è un’immagine di perfezione geometrica (che cosa c’è di archetipicamente perfetto più del cerchio?), e, al di fuori di questo, c’è un magma abusivo e amorfo, la rappresentazione massima del caos. Le due cose tengono insieme l’eterogeneità, in un immaginario difficile, complesso. È un’eterogeneità costitutiva di quella parte di Roma. La si può vedere da certi punti singolari, se si fa un po’ di “nomadismo”, tra Torre Angela e Tor Bella Monaca: da una parte c’è la pianificazione pubblica, così autoreferenziale e un po’ arrogante, gerarchica, e dall’altra il caos dell’abusivismo che non lascia neanche lo spazio per un marciapiede. È una città spezzata. Che però è al tempo stesso un luogo di trasformazioni, come mostra Lanzetta nel cercare una via di uscita dall’antinomia tra un pubblico autoreferenziale e un privato appropriativo. Mi sembra si possa dire che la via d’uscita dall’antinomia apra lo spazio dell’informale che dà il titolo al libro: una figura, un concetto, in cui bisogna scavare ancora.
Il modernismo non ha funzionato perché ad esso non ha corrisposto la forma di vita. Però certi quartieri di grande cimento urbanistico potranno avere in futuro una nuova vita. Ad esempio, sono convinto che Corviale tra cinquant’anni sarà uno dei luoghi più interessanti di Roma. Allora, “informale” significa che dobbiamo cercare nella forma di vita l’aspetto generativo, l’aspetto vitale, su cui incardinare una nuova progettualità.
Ma qual è poi questa forma di vita? Qui Lanzetta introduce una considerazione insidiosa ma a mio avviso cruciale. La parte vitale di certi quartieri si colloca su un crinale: su un versante c’è il solidarismo comunitario, l’associazionismo e le tante esperienze di cittadinanza attiva, ma sull’altro versante c’è l’elemento corruttivo, criminale, mafioso. Sono due momenti della stessa struttura sociale, e la politica pubblica dovrebbe coltivare il versante buono e combattere quello cattivo. Purtroppo la strumentazione amministrativa ignora la dimensione vitale e impone i suoi schemi astratti alla realtà multiforme della città del GRA. Da qui si vede il superamento di tutti gli strumenti che operano dall’alto, cioè quelli riformistici su cui ci siamo formati come studenti e poi come amministratori.
Quindi si tratta di trovare le forze veramente generative su quel crinale contraddittorio. Ma con quali metodologie? Bisogna ripartire da una comprensione più profonda di che cos’è questa città, di quale sia la genealogia della sua trasformazione. Il tema è complesso, cerco di enunciarlo ricorrendo a una suggestione. Il migliore contributo dell’urbanistica italiana a livello internazionale è stato quello dell’analisi tipologica dei centri storici, a partire dalle teorie di Caniggia e dalle realizzazioni di Cervellati a Bologna negli anni Sessanta. La teoria consisteva nell’analizzare la genealogia dei tessuti storici al fine di innestare l’azione di recupero o di restauro sulla stessa logica originaria degli edifici. L’analisi tipologica, che la scuola italiana ha sviluppato sulla scala della città compatta, andrebbe ripresa e rielaborata sulla scala vasta dello sprawl. Nella città del GRA si dovrebbe individuare una sorta di abaco delle diverse forme spaziali sedimentate per poi incardinare gli interventi di trasformazione nella trama di formazione dei diversi territori.
Oggi si è soliti parlare male della forma urbis. L’urbanistica ha introiettato un rifiuto a progettare a grande scala in seguito ai molti insuccessi del secolo passato. Però non dobbiamo dimenticare che la forma urbis esiste, ed è molto ben definita nell’immaginario collettivo sotto certi aspetti. Il GRA è la più forte forma urbis presente nella mente dei romani. La conoscono tanto bene da assumerla come codice d’uso della città, una mappa mentale che consente di uscire su quello svincolo per andare in quel quadrante urbano, per muoversi nell’area regionale, per farsi un’idea generale di Roma contemporanea. Se vediamo una foto satellitare della città appaiono tante forme urbis, che sembrano gli spettri o le ombre dei fallimenti delle forme urbis progettate dal volontarismo urbanistico: la Cometa verso il mare, il triangolo dell’Appia, i vuoti del sistema direzionale orientale. In fondo il GRA è uno spettro del Grande Asse Attrezzato progettato dal riformismo di Piccinato e Zevi. Non si è realizzata a Est la città lineare dei nuovi centri direzionali, ma una sorta di decentramento terziario è avvenuto sul GRA nell’imprevista ibridazione con le borgate abusive, le fabbrichette, i depositi, gli sfasciacarrozze e i centri commerciali. Ora bisogna vedere se noi siamo in grado di lavorare dentro queste ombre delle forme urbis per immaginare una nuova trasformazione per il secolo che viene. È il cimento che abbiamo davanti.
Purtroppo tutto questo, al momento, non si aggancia a nessuna volontà politica. E sarà così per un certo periodo di tempo. Però nei momenti di decadenza, quando tutto appare difficile, è molto importante che le avanguardie vadano avanti, che si studi, che si pensi, che si elaborino nuove idee per la città. Cosicché, quando ci sarà una rinascita, si tratterà di mettere in pratica le idee che nella fase precedente erano minoritarie ed eterodosse. A quel punto il libro di Lanzetta e tanti altri testi di giovani studiosi critici conquisteranno nuovi lettori. Non a caso il libro si chiude con un appello ai giovani progettisti per rinnovare metodi e obiettivi nel governo della trasformazione di Roma.
Quando l’estate scorsa ho letto il libro, di getto ho scritto un messaggio ad Alessandro, un po’ una provocazione: “Dovresti, se posso permettermi, portare avanti il discorso. Come Zevi organizzò lo studio Asse, tu dovresti chiamare un gruppo di progettisti a reinventare l’asse effettivamente realizzato, il GRA. Quelli erano progettisti razionalisti, già in carriera, animati da una volontà di potenza. Dopo tanto tempo la risposta può venire solo da un gruppo di progettisti che conoscono la precarietà sia del proprio lavoro sia della città informale, e quindi non cadono nella trappola della volontà di potenza, semmai riscoprono la postura borrominiana dell’ex malo bonum“.
È questo l’augurio che come vecchio amministratore mi sento di rivolgere a Lanzetta e alla nuova generazione di studiosi e di progettisti di Roma.