di Alessandra Criconia
[Intervento alla presentazione del volume nella libreria “Todo modo” di Roma il 18 ottobre scorso]
Il libro di Massimo Canevacci La città polifonica (Roma, Rogas, 2018), di cui abbiamo oggi la seconda edizione arricchita da una nuova premessa, è un testo di antropologia urbana che tratta della megalopoli, nel caso San Paolo, dichiarando fin dal titolo la tesi che intende sostenere: la città contemporanea è una molteplicità di segni e codici comunicazionali intrecciati alle tecnologie digitali. Questa è la sua “polifonia”: essa non consiste soltanto in un insieme di beni e valori materiali e immateriali, ma, come in un cortocircuito, permette di connettere la città ipermoderna con il villaggio Bororo. Scrive Canevacci: «[…] straniero e familiare si attraversano e la comunicazione digitale connette la megalopoli di São Paulo con il villaggio Bororo di Meruri» (p. 19). Il libro è una riflessione etnografica attenta ai tempi nostri, vòlta a costruire un pensiero del presente, che può essere tale solo in quanto stabilisce un rapporto con il passato. I cinque capitoli che compongono la prima parte del volume sono così dedicati alla puntuale analisi dei “classici” (dai futuristi a Benjamin, dai surrealisti a Lévi-Strauss, arrivando fino a Bateson,) per prendere poi in esame la comunicazione urbana seguendo soprattutto le suggestioni di un antropologo della postmodernità quale Clifford Geertz e di un critico della letteratura come Michail Bachtin. Questa rilettura è la premessa del metodo sviluppato nella seconda parte del libro, che «[…] utilizza due altre voci per la rappresentazione di São Paulo: le foto e un diverso stile di scritture, [che] contribuiscono a far parlare le molteplici facce della metropoli» (p. 179).
Per chi come me è architetto e si occupa di progettazione urbana, la scelta di una megalopoli di oltre dodici milioni di abitanti come campo di studio e la definizione di un metodo di lettura dello spazio di tipo dialogico, basato sull’osservazione non solo dei soggetti ma anche degli oggetti, è l’aspetto più interessante del libro. Con l’autore condivido la passione per San Paolo che preferisco a Rio de Janeiro perché San Paolo, così caotica, così dispersiva, così polifonica, appare contemporanea a differenza di Rio che è rimasta moderna. Ma per capire i codici e comprenderne la mente, per dirla con Bateson (cfr. p. 71 sgg.), bisogna immergersi nella città, indossando i panni di un’identità ubiqua che non ha nulla a che fare con l’identità statica del turista che la attraversa senza coinvolgimento.
Sono stata a San Paolo per la prima volta nel 2013, sui passi dell’architetta Lina Bo Bardi, e lì sono tornata periodicamente come se facessi ogni volta un “sopralluogo”. Per me questo ha significato mantenere uno sguardo di provvisorietà non alla ricerca dell’universalità della città ma degli indizi che provengono dall’osservazione parziale degli edifici, delle strade, degli alberi, delle persone, e che permettono, pezzo dopo pezzo, di entrare nei gangli del funzionamento urbano. Questa provvisorietà dello sguardo è all’origine della stessa osservazione partecipante di Canevacci. Il suo transitare urbano facendosi sguardo per cogliere le differenze, il suo apprendere a stupirsi, l’inventare dialoghi con gli oggetti della città, il suo programmatico non fare interviste, significano tanto riconoscere l’oggetto da interpretare quanto definire il mezzo attraverso cui attuare l’interpretazione. Così il «visuale che diventa oggetto e metodo» (p. 63) mi ha permesso di capire qualcosa di più dei miei sopralluoghi, perché mi ha dato la consapevolezza dell’importanza del processo dialogico che l’osservazione e la fotografia permettono di stabilire con la polifonia dei segni comunicazionali che la città emette in modo mai neutrale. Camminare, osservare, fotografare sono una pratica basilare di conoscenza della città, che in architettura può costituire una fase attiva del progetto e non soltanto un’analisi preliminare.
Da questo punto di vista il mio interesse per Lina Bo Bardi non è stato soltanto per la sua architettura ma verso una pratica, anch’essa empirica, di osservazione partecipante di cui lei stessa scrive a proposito della fabbrica di Vila Pompeia quando non era ancora diventata un Sesc, cioè un centro multifunzionale culturale e ricreativo. Il successo di questa cittadella del tempo libero, divenuta un punto di incontro e una “piazza” dei paulistani, risiede a mio parere proprio nel processo di conoscenza antropologica e di ascolto della polifonia del luogo che ha fornito le chiavi per mappare il “teatro delle azioni“ su cui intervenire, come ha detto Bo Bardi, «con poche mosse». Ci sarebbe molto da dire su questo, perché un progetto inteso come elaborazione retroattiva di una mappatura critica è una scelta di campo non soltanto formale ma anche politica. L’architettura delle azioni che include e prende le mosse dall’etnografia del luogo, prelude a una bellezza popolare e non folclorica che non si ritrae dinanzi al “brutto”.
È qui, attraverso questo concetto estetico dell’ordinario, che la megalopoli San Paolo acquista il valore di un campo di studi strategico: una città smisurata e a crescita incontrollata non è il luogo di un’immagine urbana canonica ma quella dei segni della molteplicità di culture che fanno la polis. I ventisette casi campione, che Canevacci monta come tessere di un mosaico che non si completerà mai, sono infatti brevi viaggi nel complesso multiversum della megalopoli per coglierne le differenze e redigerne le differenti mappe qualitative, ciascuna, nella sua parzialità, connessa all’insieme.