di Mario Pezzella
[Relazione presentata al convegno Marx e la critica del presente (novembre 2018) e apparsa, in forma leggermente diversa, in P.P. Poggio, C. Tombola (a cura di), L’ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto, Brescia, Fondazione Micheletti, 2019].
Non parlerò in questa sede di Lacan in generale; mi limito a ricordare che secondo gli interpreti più autorevoli1 esistono tre periodi nel suo pensiero, con caratteri anche molto diversi: il primo, dominato dalla logica kojeviana-hegeliana del riconoscimento intersoggettivo (la relazione analitica parte da una parola vuota, in cui il paziente si trova nella posizione del servo di fronte a un padrone supposto-sapere; l’analisi rovescia questa dissimmetria, dissolvendo la struttura stessa del rapporto servo-padrone e lasciando emergere la singolarità irriducibile del soggetto e del suo desiderio); il secondo dominato dalla concezione dell’inconscio come linguaggio e dallo strutturalismo dell’ordine simbolico; il terzo in cui l’onnipotenza di questo ordine si sgretola, di fronte all’impossibilità di assorbire completamente nel simbolico pulsioni e singolarità soggettive (o ciò che Lacan chiama l’irriducibile e perturbante Reale)2. Noi ci occuperemo solo di quest’ultimo periodo e precisamente di alcuni nodi problematici in cui Lacan si confronta col pensiero di Marx ed emerge la sua concezione dell’inconscio sociale. Scarto di proposito quelli che si prestano solo a una vaga analogia e mi rivolgerò a tre livelli o tre gradi di pensiero: il discorso del capitalista, il lato osceno del potere, l’alienazione.
Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi3, Lacan ha sempre più distinto un «discorso del capitalista» dal tradizionale «discorso del padrone». Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita «ingiunzione al godimento», caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento. Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del ’68 e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, secondo Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un «padrone repressivo» nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico.
Secondo Lacan, il godimento accompagna e stimola all’infinito il consumo di merci ed è tutt’altra cosa dal piacere: è connesso alla pulsione di morte, al travalicamento dei limiti, all’incremento senza misura, anche a costo della consunzione di sé. Al tramonto del capitalismo weberiano, nutrito di ascesi e senso di colpa, si affermerebbe la nuova variante euforica-maniacale, alla ricerca continua dell’eccesso e di oggetti-feticcio, che colmino ogni vuoto e ogni mancanza del desiderio.
Questa analisi di Lacan sembrerebbe oggi rimessa in discussione. Non è forse caratteristico del capitalismo attuale il richiamo al debito-colpa e alla necessità mitica del sacrificio? In realtà ci troviamo di fronte alla compresenza paradossale di due estremi, che parevano escludersi. L’immaginario del soggetto diviso è dominato dall’ingiunzione al consumo e dalla sua idolatria4, che può essere sostenuta solo da un indebitamento crescente e continuo; i mali che ne conseguono sono tuttavia colpa dell’indebitato. Comandare il godimento e contestarne insieme la colpa sembra un comportamento contraddittorio e folle. In effetti lo è, ma su questa scissione il capitale instaura il suo regime di desiderio. L’imprenditore di se stesso è sempre in atto di trasformarsi nel colpevole fallito.
Il «discorso del padrone» è un tipo di legame sociale e di potere ancora fondato sulla sua incarnazione personale. Lacan ricorda il rapporto tra il padrone e lo schiavo, che si appropria del suo sapere, nel dialogo Menone di Platone, la relazione tra il servo e il signore feudale, la dialettica servo-padrone così come è descritta da Hegel nella Fenomenologia. In un certo senso anche il primo capitalismo fino all’Ottocento mantiene questo carattere personalizzato del potere, configurato in una persona a cui ci si sottomette come a un buon padre o che si odia come un despota. Passando tuttavia dal regime formale al dominio reale del capitale, il luogo del padrone si spersonalizza: non troveremo più in questo posto simbolico una figura di carne e di ossa, ma l’impersonale astrazione del capitale, che diviene il vero unico invisibile soggetto del movimento sociale; e se figure ancora compaiono sulla scena, esse sono agite dall’impersonale moto, sono in realtà maschere di capitale, la loro autonomia è un gioco di apparenze. Afferma Pietro Bianchi, riferendosi a recenti studi di Roberto Finelli sul dominio reale dell’astrazione del capitale: «Il tetro panorama tratteggiato da Finelli ha il grande interesse di sottolineare come il capitalismo renda possibile un registro di una pulsionalità come godimento di un soggetto non antropomorfo (potremmo dire: come godimento della logica stessa, impersonale e astratta, del capitalismo in quanto tale). Una pura pulsione non antropomorfa all’astrazione»5. Dove va ancora una volta ricordato che il godimento non è il piacere, ma una tendenza mortifera all’incremento (di volontà di potenza e di denaro), godimento non di qualcosa ma dell’incremento in quanto tale.
Il discorso tradizionale del padrone, diciamo fino al capitalismo dell’Ottocento, si fonda sul sacrificio del soggetto, in nome dell’incremento del profitto: «Nel Seminario XVI Lacan fa cenno al fatto che il capitalismo si basi sulla rinuncia al godimento (che sembrerebbe contraddire la tesi del discorso del capitalista). […] Lo scopo, il desiderio e la capacità trasformativa aperta dalla domanda sullo scopo della produzione viene requisita alla forza lavoro e sottomessa all’accumulo di una ricchezza astratta, senza ragione né finalità che non sia la continua riproduzione di se stessa»6. Aggiungerei che la rinuncia al godimento nel capitalismo weberiano è stata fin troppo enfatizzata, come fonte originaria dell’accumulazione primitiva, le cui radici primarie secondo il Marx del Primo libro del Capitale sono piuttosto la violenza pura, in particolare quella coloniale, e la creazione del debito pubblico, mentre il capitalista virtuoso e ascetico appare come causa apparente e secondaria. Quanto alla continua riproduzione e all’accumulo fine a se stesso essi sono certo una qualità generica del capitale, ma credo che si dispieghino in forma per così dire pura solo all’interno del pieno dominio dell’astrazione reale e nel capitalismo del secondo Novecento: manterrei dunque una differenza effettiva tra discorso del padrone e discorso del capitalista, considerando però che tra i due non c’è tanto una successione cronologica, ma circolarità viziosa e complementarità. L’astrazione delle merci e il rapporto padronale autoritario sono forme diverse, ma in qualche modo complementari.
Ancora nella seconda metà del Novecento, il capitale alternava ciclicamente l’invito allo sviluppo e alla prodigalità, e poi – nella crisi – quello all’austerità e all’avarizia. L’oscillazione dei due termini è ora divenuta così rapida, da trasformarsi in quasi-simultaneità. Creazione e distruzione di valore si alternano nello stesso lampo di una seduta di borsa. Bisogna stimolare il consumo debitorio fino all’autodistruzione del consumatore indebitato (il destino del singolo è totalmente irrilevante). Egli alterna nel corso della stessa giornata eccessi di movimento frenetico al panico di arresti paralizzanti, il tempo velocizzato al tempo pietrificato7. La natura vampiresca del capitale si è affinata così nella sua forma più pura: «…Nella livida figura di Dracula si riverbera una perfetta metafora del capitale, della morta cosa che risucchia la sostanza del vivente»8. L’eccesso è il fuoco in cui brucia la materia corporea per trasformarsi in algoritmo finanziario.
Il soggetto è scisso, entro un ordine simbolico che non nasconde più, ma anzi esibisce trionfalmente la lacerazione tra l’ingiunzione sadica al godimento e la colpevolezza masochista. Egli è colpevole perché non è capace di mantenersi all’altezza della prestazione di godimento che dovrebbe fornire: la sua frustrazione è imputata alla sua incapacità e inadeguatezza personale, al suo indebitamento insensato. Ciò che un attimo prima era virtù è divenuto improvvisamente vizio.
Il soggetto esce dal «discorso del padrone» per trovarsi avvolto dalla biosfera collosa e onniavvolgente della società del consumo, simile a una Grande Madre primordiale, che promette nutrimento illimitato, ma in realtà impedisce ogni autonomia personale9. Il desiderio (non ridotto a ricerca compulsiva del godimento) include in sé una mancanza, che non è solo negativa: esso contiene una funzione trascendente, un ethos del trascendimento (come lo chiamava De Martino), che anima il suo scorrere all’infinito. Attraversare il desiderio significa superare l’iniziale pretesa immaginaria di totalità e comprendere la natura provvisoria e finita di ogni sua incarnazione. La sua «insostanza», come la definisce Lacan, la sua impermanenza diviene limite e fervore allo stesso tempo. Non credo tuttavia che Lacan pensi a una differenza di tipo energetico o antropologico, a un’opposizione tra desiderio e godimento, come se possedessero una natura essenzialmente diversa; ancor meno che il godimento coincida con la pulsione di morte e il desiderio con quella erotica, secondo il dualismo freudiano di Al di là del principio del piacere. La loro differenza dev’essere compresa entro un indice storico: il godimento, come si dà all’interno del discorso del capitalista, è il regime del desiderio completamente asservito alla logica del capitale, da cui le sue componenti mistiche, rivoluzionarie e utopiche vengono detournées, deviate ed estorte, oppure deformate in modo tale da poter essere messe a servizio della teologia del danaro. Alla mistica dell’amor cortese, «che mai non fina», si sostituisce la ricerca ansiosa dell’ultimo gadget.
Se si sopprime interamente la coscienza della mancanza – ed è quanto avviene nell’ingiunzione al godimento del discorso del capitalista – si spegne anche ogni alterità e ogni non aderenza all’esistente dato; il desiderio è distorto verso oggetti-feticcio, merci che gli promettono assoluti immaginari, per poi sgretolarsi una volta adempiuta la loro transustanziazione in denaro. A una soggettività che accetta lo scorrere metonimico insieme mancante e trascendente del desiderio, si oppone quella ipermoderna, fondata sulla pura immanenza del consumo. Poiché questo si rivela labile e insoddisfacente, segue infine la depressione e il furore: non sarà un «altro» ad avermi sottratto la felicità?
Indicare l’«altro» nemico in una categoria etnica e sociale determinata, è il compito del fascismo populista, l’effetto di capro espiatorio, che impedisce lo scatenarsi di una irrefrenabile violenza mimetica. La pretesa del godimento assoluto e la sua ripetuta delusione, contengono in germe la psicologia totalitaria, estrema risorsa di fronte alla crisi della presenza, scatenata dalla fantasmagoria del consumo. La democrazia dominata dalle merci richiama in servizio presto o tardi il suo complemento fascista.
Nella struttura presente del capitale, il soggetto non deve percepire una mancanza che potrebbe mettere in moto la critica. Sopprimere interamente tale percezione significa però abolire la coscienza dei propri limiti, della propria finitudine, della propria creaturalità, e aprire le porte all’elogio dell’eccesso, alla sfrenata consumazione delle risorse naturali, all’euforia dell’autodistruzione.
Secondo Samo Tomšič il capitale alimenta l’utopia di una vita assolutamente priva di negatività e forclude il tema della castrazione: propone un vitalismo ottimistico, un eterno fiorire, un’età dell’oro, nello stesso momento in cui la sua essenza si basa su una negazione e una contraddizione costitutiva, che si ripresentano continuamente, come Reale perturbante, sintomatico, inconscio. Questa logica del fantasma è complementare alla logica della produzione, e dis-toglie dalla contraddizione reale. Il capitale «simultaneamente produce e forclude la negatività»10. Per cui il pensiero critico deve necessariamente ripartire dalla presenza del negativo: «La tensione fra astrazione e negatività è il nucleo di una teoria materialista del soggetto»11.
Tomšič ricorda le frequenti affermazioni di Lacan, secondo cui Marx sarebbe il primo ad avere scoperto il «sintomo», come emergenza di una contraddizione sociale inconscia, che si esprime appunto in una caratteristica forma di distorsione; il sintomo sociale avrebbe poi una struttura non troppo dissimile da quella indicata dalla psicanalisi. Tomšič giunge a dire che l’ultimo Lacan abbandona la linguistica e Saussure come punti di riferimento teorici, per sostituirli con la critica dell’economia politica di Marx. L’astrazione a cui pensa nella teoria dei discorsi non è più quella della catena significante, ma quella delle strutture reali del capitale (che nei discorsi si articola). I discorsi esprimono rapporti e relazioni di padronanza (e anche la loro possibile sovversione) che surdeterminano l’orizzonte del linguaggio, in modo logicamente precedente a ogni atto di parola. Il «secondo ritorno a Freud» (di Lacan), «non equipara l’inconscio solo a una struttura di linguaggio ma a una struttura del reale»12.
Il «discorso del padrone» e il «discorso del capitalista», di cui parla Lacan, non sono tanto gli opposti di un’alternativa, e neanche fasi in successione temporale irreversibile ma estremi simultanei di una soggettività scissa, modalità ricorrenti del suo controllo, secondo le necessità del ciclo capitalista. L’euforia pseudodemocratica del consumo è sempre pronta a ricodificarsi in populismo autoritario e fascismo; le due forme sono l’una il supporto e il sostegno dell’altra, o comunque possono ibridarsi in forme che oggi si chiamerebbero di democrazia illiberale e che Debord aveva definito come società spettacolari integrate.
Ciò del resto corrisponde alla compresenza di un lavoro comunicativo, mentale, immateriale e affinato, e di un lavoro servile e schiavile, in cui si ripresentano i tratti selvaggi dell’accumulazione primitiva del capitale, descritti da Marx nel capitolo 24 del Primo libro del Capitale. La primitività dello sfruttamento dei corpi nelle fabbriche delocalizzate e nella condizione infera dell’immigrazione coabita con quello virtuosistico delle menti, sempre più asservite al ciclo funzionale del capitale astratto e della finanza globale. La servitù personale diretta coesiste con l’impalpabile dominio dei meccanismi finanziari sul tempo di vita di ognuno. Il soggetto può scivolare con facilità dalla condizione del precario ipermoderno sfruttato per le sue doti linguistiche e comunicative a quelle del diseredato costretto nella plebe più miserabile, condannato all’accattonaggio e alla povertà: per fuggire la quale è periodicamente disposto ad affidarsi ai populismi etnici, che gli garantiscono, nella disperazione, di essere un po’ meno disperato di chi gli sta sotto.
«La formula di Lacan del discorso capitalista continua la sua linea di pensiero secondo cui il capitalismo essenzialmente tende ad andare al di là della forclusione della castrazione. La sua visione del mondo mira a colmare la scissione del soggetto grazie alla feticizzazione dell’oggetto, la quale vorrebbe stabilire una relazione univoca tra soggetto e godimento»13. L’alternarsi di euforia del possesso e depressione malinconica è funzionale al sorgere di sempre nuove merci, al loro rapido decadimento, alla loro sostituzione nel ritmo veloce della moda; in una parola è essenziale alla loro circolazione e realizzazione in danaro. Il capitale si impadronisce del desiderio e lo pone al lavoro, trasformando il sentire in presupposto dell’astrazione immateriale: «Ovviamente, la forclusione della castrazione non implica che il godimento divenga accessibile. Al contrario, la forclusione radicalizza il vuoto di jouissance e spinge il super-io verso una domanda insaziabile di godimento»14. Il godimento risponde alla delusione, che ogni merce procura, richiedendo un ulteriore incremento di potenza, un illimitato ardore. Se il desiderio, in fondo, sospetta sempre la lontananza della sua immagine e la sua natura di sogno, il godimento non tollera distanza e distrugge ciò che non riesce ad afferrare. L’infinita potenza di distruggere, il piacere nel dolore e nella distruzione, è la sua verità.
Dall’euforia del consumo il soggetto ricade nell’atonia melanconica. Più terribile di ogni deformazione del desiderio è la sua assenza totale e il sentimento indefinito della propria colpa e inadeguatezza: si afferma allora il «dolore dell’esistenza, quando niente più l’abita se non questa esistenza stessa e tutto, nell’eccesso del dolore, tende ad abolire questo termine non sradicabile, che è il desiderio di vivere»15. La nuda esistenza, per definire la quale Levinas usava l’impersonale il-y-a, diviene priva di ogni trascendimento, e sprofonda in una compattezza ottusa, senza mai giungere ad essere davvero un esistente. Un soggetto così ben disposto alla distruzione di sé è pronto per la macchina totalitaria.
Il potere, nelle società dello spettacolo, esercita una sovranità scissa e divisa tra una superficie pubblica legalitaria e morale e un risvolto osceno e oscuro. Ci sono regole dell’ombra che occorre conoscere anche meglio di quelle dello Stato, molto più inflessibili, benché non codificate. L’origine del lato osceno e nascosto del potere (secondo Žižek)16 dipende dal fatto che l’ordine simbolico non è l’unico elemento che tiene insieme il legame sociale; esso è sotteso da un regime del desiderio, che nel caso del capitale è quello del godimento, e può essere in totale contrasto col simbolico riconosciuto. Il simbolo convive col fantasma e spesso confligge con esso; una crisi dell’ordine simbolico si verifica quando i due poli si separano talmente da divenire incompatibili, il soggetto agisce secondo un fantasma di godimento che ha perso ogni contatto con la rappresentazione pubblica della legge.
Il lato osceno del potere, come lo chiama Žižek, è sospinto da una pulsione di morte e di godimento, che confligge con le leggi scritte, tanto più intollerante nei suoi imperativi, quanto più questi sono inscritti nella carne e non nei codici giuridici. Un caso comune: nei corpi militari e nei college americani è vietata ufficialmente ogni forma di abuso contro le reclute e le matricole; ma in realtà occorre obbedire all’imperativo di trasgredire questa legge e praticare la violenza «iniziatica» indispensabile a fissare la gerarchia e le relazioni libidiche tra i membri del gruppo; senza di questo non ci sarebbe nemmeno l’ordine di superficie. Qualcosa deve essere fatto, che non può essere detto e l’imperativo dell’ombra deve raddoppiare quello della luce, eliminando gli ingenui che non lo comprendono. I diritti del cittadino suppongono la gerarchia oscena del sottosuolo, e questa inversione continua dell’alto e del basso, dell’etico e dell’osceno è un’ombra che attraversa ormai ogni relazione sociale del capitalismo, a cominciare ovviamente da quelle sessuali. Il capitale instaura un ordine simbolico contraddittorio e inconscio, che scinde ogni piega della vita del soggetto.
Secondo Žižek il discorso del capitalista attuale ha modificato la nozione di inconscio sociale presentata da Marx: gli uomini «equiparano gli uni con gli altri i loro diversi lavori come lavoro umano, equiparando nello scambio gli uni con gli altri, come valori, i loro eterogenei prodotti. Ignorano di fare questo, ma lo fanno»17. Ora invece essi «sanno benissimo quello che fanno e tuttavia continuano a farlo»18. Invece di una divisione netta tra conscio e inconscio, subentra ora una divisione all’interno dello stesso regime della conoscenza. Tra conoscenza riflessa e conoscenza non riflessa, come diceva Bloch c’è un «noto ma non conosciuto», non riconosciuto nel suo significato essenziale, che non è più semplicemente inconscio, ma è un’accettazione pratica del dominio, anche qualora ne sia nota la natura di dominio. Nella frase di Marx c’è una differenza tra conoscenza e azione inconscia; in quella di Žižek tra conoscenza riflessa e il noto non conosciuto (nei termini di Bloch). Essi sanno benissimo di scambiare merci, di essere sotto il dominio della forma di merce, e di essere divenuti essi stessi merci forza-lavoro; nondimeno questa gli appare come una legge naturale, una condizione inalterabile e non come un effetto dell’astrazione di capitale. Quindi non si ribellano e continuano a fare ciò che comporta il loro asservimento. Il capitale e la mercificazione appaiono come condizioni naturali intrascendibili, e nonostante la distanza cinica che il soggetto prende rispetto ad essi, egli ne riconosce nondimeno l’ineluttabilità; così come non può sottrarsi al regime del godimento imposto dall’ingiunzione del capitale.
La scissione tra leggi scritte dell’ordine simbolico e leggi non scritte del desiderio trova le sue radici nell’ultima concezione di Lacan: il godimento fusionale assoluto negato dall’instaurarsi dell’ordine simbolico e sociale (in primo luogo il desiderio di ricongiungersi fusionalmente alla Madre primordiale, alla Cosa), lascia dei resti, dei residui insopprimibili, una pulsionalità ribelle a qualsiasi integrazione nell’ordine simbolico. Questi residui, verso cui si orienta un desiderio non normato, sono in primo luogo le zone erogene del corpo pre-edipiche, quella orale e quella anale, a cui Lacan aggiunge la voce e lo sguardo. Ogni ordine simbolico apparente è dunque sotteso da un regime del godimento che ad esso non si lascia ricondurre e che segue strade contraddittorie rispetto all’ordine simbolico riconosciuto come pubblicamente vigente. Il regime fantasmatico, il fantasma del godimento, costituisce un legame libidico sotterraneo, che sconvolge le asserzioni morali dell’etica di superficie. L’ingiunzione al godimento illimitato delle merci contrasta con l’austerità e la condanna austera dell’indebitamento: il carnevale convive con la quaresima.
Si possono individuare due tendenze prevalenti – e divergenti – nell’interpretazione del concetto di godimento. La prima tende ad avvicinare il pensiero di Lacan a quello di Deleuze e all’elogio dell’eccesso e del superamento del limite, presente nella cultura francese soprattutto a partire da Bataille. In questo senso il godimento è una potenza sovversiva ed eversiva dell’ordine misurato e controllato del potere, o comunque una forza singolare e ribelle che esso produce, ma non riesce a contenere nei suoi effeti e nelle sue manifestazioni. Potremmo definire questa come una concezione ottimista del godimento, mentre d’altra parte il desiderio perde il suo carattere di «mancanza ad essere» e sembra molto più espressione di una potenza positiva ed espansiva, com’è stata descritta da Deleuze. Questa lettura mi pare prevalente in Jacques Alain Miller.
La seconda interpretazione – a cui sembrano più vicini Pietro Bianchi, Tomšič, Petrosino e lo stesso Recalcati – accentua invece il legame tra il godimento e il procedere dell’astrazione del capitale e della circolazione delle merci, trasformate in feticistici oggetti a; l’ingiunzione al godimento non rappresenta l’emergere di una potenza rivoluzionaria, ma di una pulsione distruttiva che diffonde come un contagio il dominio del capitale su ogni regime del desiderio e su ogni economia libidica del quotidiano.
Del resto, bisognerebbe collocare il godimento nella sua contraddizione determinata e nel suo indice storico. Se rispetto al discorso del padrone e al dominio formale del capitale, il godimento e la pulsione di morte potevano insorgere come una sovversione distruttiva dell’ordine dominante, come un nichilismo anarchico che lo riconduceva al nulla (così è nelle pagine politiche di De Sade analizzate da Lacan), col discorso del capitalista e il prevalere del dominio reale del capitale nelle sue forme feticistiche attuali, questa potenza contestativa viene invertita e recuperata; è il capitale stesso che se ne appropria nella sua tensione continua all’incremento e all’eccesso, e nella serialità ciclica delle sue scatenate «innovazioni distruttive». Il capitale si incorpora la pulsione di morte e i suoi oggetti a, li rende centro di ogni desiderio, ponendoli come essenza della propria riproduzione (e della consumazione del vivente)19.
Esistono, secondo Lacan (nell’interpretazione di Tomšič) due distinte forme di alienazione: quella costitutiva e quella costituita. La prima è una parte ineliminabile del disagio della civiltà, la seconda è invece relativa alla mercificazione, nel particolare modo di produzione capitalistico. Questa può essere abolita o modificata, ma non la prima, non il fatto che l’essere sociale sia sempre e comunque fondato da una scissione e che il soggetto sia segnato da una incompletezza costitutiva. C’è nel soggetto una fragilità d’essere, una mancanza ad essere (il termine originariamente è di Sartre) che gli impedisce sempre e comunque di porsi come una totalità, priva di falle, di finitudine e di errore. In questo senso il soggetto è tratto da un desiderio metonimico che lo porta da un oggetto parziale ad un altro, nella continua ricerca della Cosa materna, da sempre perduta, che colmerebbe definitivamente la sua mancanza; questo è un oggetto tuttavia impossibile, sia che lo si identifichi in una oggettività naturale o biologica, sia che lo si identifichi con l’essere di un altro, che permetterebbe al soggetto la piena fusione e il pieno ritrovamento di sé. Questa natura negativa e limitata del desiderio ha il suo risvolto positivo nel fatto che il desiderio non si appaga di nessun dato, non si identifica con nessun pseudo-assoluto, possiede per così dire una naturale essenza critica, che lo spinge – per usare un termine di De Martino – a un inesauribile ethos del trascendimento. Questa sarebbe l’alienazione costituiva del desiderio; è poi da vedere se dobbiamo accettarlo come una sorta di condizione antropogenica.
Il capitalismo sostiene Lacan – nell’interpretazione di Tomšič – si installa parassitariamente su questa struttura del desiderio, se lo incorpora e ne inverte direzione e significato. Il lavoro del capitale sul desiderio fa parte di quel più generale dis-toglimento (Entstellung), che esso opera su ogni dato antropologico e su ogni eredità culturale del genere umano. Il desiderio – all’interno del dominio del capitale – è orientato feticisticamente sulla merce, la quale promette quel soddisfacimento assoluto (come feticcio), che annulla il carattere critico e produttivo del desiderio. L’alienazione costituita della merce stravolge il desiderio con una promessa di godimento, destinata a essere essenzialmente delusa, e costituisce in questo doppio movimento un soggetto che crede di poter espungere da sé ogni negatività. Nel linguaggio di Freud, l’alienazione capitalistica nega il disagio della civiltà, il negativo in quanto tale, la castrazione e la finitudine del soggetto, nello stesso momento in cui li incrementa all’infinito, instillando l’illusione immaginaria di poter raggiungere il soddisfacimento attraverso le merci.
È una negazione (Verneigung) della negatività che costituisce il fondamento dell’alienazione costituita del capitalismo e impedisce il passo propriamente umano di riconoscere la contingenza e la dipendenza del proprio desiderio dall’altro e dagli altri. Il godimento alienato delle merci inscrive un germe di mentalità totalitaria nel soggetto, ancor prima che il totalitarismo si manifesti come forma politica, gli instilla la pretesa all’illimitato, all’incremento senza limite, fino all’essere identico al dio del capitale; fino al furore inconscio o al senso di colpa mortifero per non poter raggiungere una tale pienezza. In termini lacaniani, per altro oscillanti secondo i periodi, la merce è un oggetto a, cioè un sostituto feticistico della Cosa, del mito di una fusione con l’essere materno al di là di ogni separazione culturale e della proibizione dell’incesto: fusione che viene di volta in volta profferta fantasmaticamente come possibile dalla merce e dal danaro20. È su questa rischiosa nostalgia dell’umano, che il capitale si installa parassitariamente per proporre se stesso come realizzatore effettivo della nostalgia (o dell’utopia) originaria. In realtà la fascinazione di questo fantasma di fusione e di unione, che partecipa di sé ogni oggetto-merce, impedisce di riconoscere il desiderio nella sua forma limitata e contingente, ostacola l’incontro dell’altro come altro da sé, non confondibile con la mia pretesa narcisistica e illimitata, e in ultima analisi rende impossibile l’amore, che sacrifica al godimento autoreferenziale della propria pulsione.
Un punto di contatto tra Lacan e Marx sembrerebbe questo: che la storia ha inizio con la produzione di un eccesso, rispetto al ciclo della sopravvivenza semplice. Fino a quel momento la riproduzione della vita avviene ciclicamente, in una sorta di stasi. È l’eccesso che pone il problema del fine, la domanda su come gestire, definire, amministrare, questo di più che non si consuma immediatamente nella soddisfazione dei bisogni primari: «Massimiliano Tomba ha notato che nelle note che Marx aggiunge alla seconda edizione del Capitale vi è una divisione tra queste mitiche società precapitalistiche e il momento in cui con la società capitalistica subentra una produzione “in eccesso”: una produzione che genera un surplus»21. Secondo Bianchi qui c’è il nucleo originante della distinzione tra significante e significato e in certo senso la nascita stessa del linguaggio. L’incremento al di là del bisogno sarebbe dunque un dato antropologico, che una volta avvenuto dà inizio al movimento storico come produzione di novità, come apertura a eventi non predeterminati: «il surplus entrerebbe (miticamente) nel momento dell’irruzione di una produzione non demandata alla soddisfazione dei bisogni ponendo per la prima volta una domanda su «che cosa produrre». Il lavoro dopo l’ingresso del surplus non fa più tutt’uno con il significato. Questo surplus insensato, questo eccesso che non si capisce per quale motivo sia stato prodotto fa sorgere la domanda: che cosa farne di questa produzione in eccesso? Qual è il suo scopo?»22. Il capitalismo si impadronirebbe di questa potenza antropologica del produrre il di-più, assumendola nella forma di produzione di merce, di valore di scambio, in certo senso feticizzandola, facendo sparire dalla visibilità il suo nesso col lavoro. Ciò può avvenire asservendo il lavoro stesso come forza lavoro, rendendolo tempo misurato astrattamente: «Il surplus in quanto scopo dell’attività del proprio stare al mondo, è quello che specificamente individua l’uomo in quanto tale perché non attiene al registro della pura sopravvivenza ma attiene a quell’«in più», eccesso, apertura verso il possibile: potremmo dire attiene al desiderio. Comprando la forza lavoro il capitalista si appropria della capacità trasformativa di questo surplus. E decide di farne ciò che vuole»23.
L’incremento di valore e di desiderio sarebbe così un dato antropogenico, di cui poi si impadronirebbe il capitale. Ma ci si può chiedere se effettivamente il produrre di più e in eccesso è un a priori antropologico, se la storia è pensabile solo in questo desiderio metonimico di espansione. Il capitale si impadronisce di una condizione che pertiene all’umano in quanto tale? O è il capitale a proiettare retrospettivamente come dato antropologico primario una pulsione all’incremento e all’aumento di potenza, che in realtà caratterizzano il suo essere storico? Seguendo qui l’interpretazione marxiana di Finelli, non è forse il surplus come dato antropogenico un «presupposto posto», cioè una fondazione retrospettiva, che pone come origine dell’uomo un dato storicamente prodotto alla fine dello sviluppo del capitale?
Plusvalore e plusgodere sono effettivamente originari, oppure è pensabile una storia e una socialità in cui la produzione di un plus sarebbe essa stessa considerata superflua e sottoposta ad altre priorità24, per esempio a un rapporto armonico con la natura? Questa diversa socialità non più votata all’incremento in ogni ambito, produrrebbe probabilmente un altro fantasma di origine, fondato sull’equilibrio invece che sulla dissimmetria e sullo spostamento incessante. E del resto l’utopia di un’origine del genere si è già presentata mitologicamente e poeticamente con l’immagine dell’età dell’oro. Essa sopravvive nelle indagini antropologiche di Pierre Clastres, che ipotizza appunto non solo società senza Stato, ma senza l’idea dominante della produzione di un eccesso. Si deve identificare la storia come storia della produzione di un surplus o è possibile concepirne una che non abbia questo pungolo e si svolga con finalità ed esigenze diverse?
Lo stesso tipo di domanda si può porre per il concetto di alienazione costitutiva, proposto da Tomšič. Non sarà questa un effetto retraoattivo dell’alienazione costituita del capitale: non è cioè il capitale stesso a proiettare retrospettivamente l’alienazione come dato antropogenico e ineliminabile? Laddove invece essa è propriamente l’ordine del discorso in cui siamo immersi, l’orizzonte di dicibilità in cui siamo connessi: e tuttavia pur sempre anche questo un dato storico modificabile e non eterno.
L’interpretazione di Lacan non può non dipendere da una scelta e da un presupposto antropologico di fondo, riguardo alla natura del desiderio. Se si parte da una concezione positiva e piena del desiderio, come conatus puramente affermativo, opteremo per una visione deleuziana, molto lontana da quella di Lacan, e a me sembrano inutili i tentativi di avvicinare più del possibile questi due autori. In Lacan il desiderio nasce da un’antropologia negativa, il conatus è sospinto da una mancanza d’essere, da una inadeguatezza essenziale tra il corpo e la natura finita del soggetto, e l’immagine ideale che egli ha di sé, tendenzialmente mirante a una perfezione immaginaria (questo, fin dallo studio sullo stadio dello specchio, e poi più marcatamente nel periodo in cui prende forza la concezione del godimento, come ingiunzione sadomasochista). Lacan privilegia il Freud della seconda topica, in cui esiste sì la pulsione affermativa di eros, un conatus rivolto alla vita, ma anche quello negativo della pulsione di morte, nelle sue due varianti: il ritorno autoannullante nel Nirvana del non essere e l’aggressività illimitata rivolta verso sé e verso l’altro25. In realtà il riconoscimento della propria mancanza ad essere26 può paradossalmente limitare la pretesa assolutezza positiva dell’immaginario, limitare la forza distruttiva della pulsione di morte (accettare il desiderio ma non l’imperativo sadiano del godimento), spingere l’uomo a essere come singolarità limitata, che necessita per sussistere e resistere del legame sociale con l’altro. Il riconoscimento della propria non assolutezza e della propria mancanza, l’indebolimento dell’enfasi eroica e conquistatrice dell’Io, può portare a una concezione rinnovata della più disattesa delle parole rivoluzionarie: la fraternità di fronte al male e alla morte, come ha scritto Leopardi alla fine della sua vita nella Ginestra: «Magnanimo animale / non credo io già, ma stolto, / quel che nato a perir, nutrito in pene, / dice, a goder son fatto, / e di fetido orgoglio / empie le carte, eccelsi fati e nove / felicità, quali il ciel tutto ignora, / non pur quest’orbe, promettendo in terra». Mentre chi non cede all’imperativo della potenza, e riconosce la propria mancanza ad essere, «tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune». Forse questo è un modo di uscire dall’alienazione più veritiero di quello che pretende di ricondurre l’uomo a una sua pretesa essenza positiva originaria, ed è anche più vicino alla differenza che c’è, a questo proposito, tra il primo Marx e il Marx del Capitale, per il quale legame sociale e potenza del negativo sono entrambi indispensabili e si bilanciano a vicenda. Il desiderio parte dunque da una coscienza e da un riconoscimento del negativo; ma proprio da questa autocoscienza si sviluppa un movimento positivo che conduce alla necessità del legame etico e politico con l’altro, forme di amore fraterno, che consentono di far fronte al male storico del dominio e al male antropologico della fragilità del corpo. In questa forma positiva non ingenua, Eros si oppone come altro polo a Thanatos, secondo il dualismo tragico riscoperto da Freud nell’Al di là del principio del piacere.
Postilla 1. A proposito di presupposto materialista o spiritualista, prevalenza del corpo o del linguaggio, preesistenza dell’uno o dell’altro, Lacan propone piuttosto una corrispondenza biunivoca tra l’espressione corporea e la catena simbolica. Non c’è moto corporeo che non riceva espressione segnica, già a partire dal mondo animale, e che possa davvero esistere per la percezione senza che tale espressione sia riconosciuta, ma anche il reciproco è vero, cioè che partendo da una parola, da un segno, da una immagine, si può indurre una mutazione fisica profonda, fino a iscrivere un sintomo doloroso come una spina nella carne. Le scintille dello spirito si trovano disperse nel più profondo della materia. Il Lacan che forza i limiti dello strutturalismo, cerca di pensare come inscindibili il segno, la pulsione, l’iscrizione corporea e il simbolico.
L’oggetto a come causa del desiderio è localizzato in una zona del corpo, è inscindibile dall’azione del simbolico sul corpo, proprio nel momento in cui non si lascia ridurre a linguaggio o a segno: si può forse dire che è il motore pulsionale, il fantasma originante, che pone l’ordine del discorso e la direzione del desiderio; è ciò che eccede il linguaggio, ma che non sarebbe neppure concepibile se non esistesse il suo orizzonte.
Postilla 2. A proposito dell’indice storico del concetto di godimento, si potrebbe ricordare la dialettica fra aorgico e organico presente nella dialettica tragica di Hölderlin. Nessuno dei due opposti si identifica in modo assoluto col bene e col male; l’aorgico, forza che preme verso l’illimitato, il caos primordiale, l’anarchia e il nulla, è il negativo se scatenato nella sua unilateralità; ma anche l’organico datore di forme e di limiti diviene il negativo della vita se impone una legge soffocante ogni mutamento e contraddizione reale. In un certo senso le due unilateralità si corrispondono e si richiamano dialetticamente: in presenza di un ordine simbolico opprimente e destituito di ogni fondamento di sopravvivenza, si erge la potenza negativa dell’aorgico, della vita che risorge dalla sua oppressione e lo sgretola fino al crollo; d’altra parte, lo scatenamento lasciato a se stesso dell’aorgico porta per reazione al rinsaldarsi di una dura forma unilaterale di legge e di imposizione, giustificata dalla «grande paura» suscitata dalla sua illimitatezza. Hölderlin interpretava in tal modo gli eventi della Rivoluzione francese.
In Lacan, lo scontro o l’incontro fra la forza limitante del simbolico e quella illimitante del godimento ha più di un legame con l’evento del nazismo e col trauma della guerra. Come dice al termine del Seminario XI: «C’è qualcosa di profondamente mascherato nella critica della storia che noi abbiamo vissuto. È, presentificando le forme più mostruose e pretese superate dell’olocausto, il dramma del nazismo. Ritengo che nessun senso della storia, fondato sulle premesse hegelo-marxiste, sia capace di render conto di quella risorgenza per cui si verifica che l’offerta a dei oscuri di un oggetto di sacrificio è qualcosa a cui pochi soggetti possono non soccombere, in una mostruosa cattura… Il sacrificio significa che, nell’oggetto dei nostri desideri, noi tentiamo di trovare la testimonianza della presenza del desiderio di quell’altro che qui chiamo il Dio oscuro»27. Questa immensa e perturbante servitù volontaria, oggetto di stupore anche per Levinas28 è l’estremo inquietante di un desiderio affascinato, di cui la psicanalisi ci ha fornito qualche chiave di comprensione, e che nessuna logica razionale ed economica, come aveva compreso anche Hannah Arendt nel suo libro sul totalitarismo, è capace di spiegare interamente. Vista in questa luce, la riflessione di Lacan è inscindibile dai traumi profondi della storia del Novecento.
Postilla 3. Nel pensiero di Lacan, soprattutto nel Seminario VII, L’etica della psicanalisi, 1959-1960, la «Cosa», che attrae il desiderio verso un esito dissolutivo, è in fondo l’abisso del materno originario e illimitante, verso cui si dirige una nostalgia inappagabile, solo parzialmente adescata da oggetti a parziali e infine dalle stesse merci, che come oggetti a vengono a porsi. Il timore dell’incesto con la madre originaria sembra rendere necessaria la castrazione simbolica e la dialettica edipica con la legge. Tuttavia anche il materno conosce un indice storico. Che il timore della dissoluzione nella natura-madre giunga al parossismo con il modello eroico-borghese di costituzione del Sé era già stato notato da Adorno: «L’angoscia di perdere il sé e di annullare, col sé, il confine tra noi stessi e il resto della vita, la paura della morte e della distruzione, è strettamente congiunta ad una promessa di felicità da cui la civiltà è stata minacciata ad ogni istante»29. Questo indice dialettico e storico era già presente in un’osservazione di Benjamin: «…Anche in epoche di relativo sottosviluppo delle forze produttive l’idea feroce dello sfruttamento della natura…non è stata affatto quella decisiva. Certamente essa non ebbe alcuno spazio fintanto che l’immagine vigente della natura fu quella della Madre dispensatrice di doni, qual è stata ricostruita da Bachofen…Nella figura della Madre quest’immagine è sopravvissuta a tutti i mutamenti della storia. È evidente però che essa diviene ben più sfocata in epoche in cui persino molte madri si trasformano, rispetto ai loro figli, in agenti di classe…»30.
Tenendo conto di questo indice storico-dialettico, Elvio Fachinelli ha cercato di reinterpretare la Cosa lacaniana, secondo una potenzialità non esclusivamente minacciosa. In contesti diversi da quello in cui domina il capitale astratto, così spietatamente allegorizzato da De Sade, la fusione dissolvente può trasformarsi dall’interno in uno stato estatico, in un’esperienza sovrapersonale ben conosciuta dalla mistica, e su cui ha scritto pagine importanti anche De Certeau, uno dei frequentatori dei seminari di Lacan31. Fachinelli scrive di un «movimento asintotico» verso la Cosa materna, «non connotato esclusivamente in senso patologico», non necessariamente condizionato dall’interdizione della legge. Così come – per quanto riguarda il rapporto tra la Cosa e la legge in San Paolo –, esso non si risolve solo nella reciprocità del peccato e della proibizione; perché in San Paolo il positivo dello Spirito, che è amore, mira nello stesso tempo alla sospensione della legge e del peccato: «L’esperienza mistica è al di là della barriera dell’incesto e in essa si manifesta un aspetto antropologico sinora rifiutato, o temuto, o assimilato tout court all’impostazione religiosa»32. Tuttavia questa esperienza in cui l’unicità dell’essere singolare si afferma simultaneamente come parte contingente del cosmo e sospende il dominio della violenza e del dolore, è del tutto al di fuori del discorso del capitalista, che costituisce il nostro orizzonte. E richiede una parola che non possediamo, se non balbettando una frammentata lalangue.
1 Cfr. J. A. Miller, I paradigmi del godimento, Roma, Astrolabio, 2001; M. Recalcati, Jacques Lacan: desiderio, godimento e soggettivazione: vol. i, Milano, Cortina, 2012, e dello stesso autore Jacques Lacan: la clinica psicoanalitica, struttura e soggetto, Milano, Cortina, 2016. Si tratta di interpretazioni tra loro anche molto divergenti. Miller giunge a distinguere – per quanto riguarda il concetto di godimento – sei diversi paradigmi nel corso dell’insegnamento di Lacan. La distinzione fra godimento e desiderio – almeno fino a un certo punto – è invece caratteristica dell’interpretazione di Recalcati.
2 Negli ultimi seminari compare un ulteriore sviluppo, quello centrato sul concetto di lalangue, influenzato dalla lettura di Joyce: una lingua primordiale, «che precede il linguaggio e che investe direttamente il corpo che parla […] la sua dimensione vivente» (M. Recalcati, Jacques Lacan: vol. i, cit., p. 545).
3 Mi riferisco soprattutto al seminario xvi (J. Lacan, Da un Altro all’altro.1968-1969, Torino, Einaudi, 2019), al seminario xvii (Il rovescio della psicanalisi.1969-1970, Torino, Einaudi, 2001), alla conferenza Du discours psychanalitique, (in Lacan in Italia. 1953-1978, Roma, La Salamandra, 1978), al testo Televisione (in J. Lacan, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 505 e sgg).
4 Cfr. S. Petrosino, Soggettività e danaro. Logica di un inganno, Milano, Jaca Book, 2016 e L’idolo. Teoria di una tentazione. Dalla Bibbia a Lacan, Milano, Jaca Book, 2015. Cfr. anche M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Milano, Feltrinelli, 2009.
5 P. Bianchi, Marx e Lacan: il plusvalore come oggetto a, in D. Cosenza e P. D’Alessandro (a cura di), L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto contemporaneo tra psicanalisi e filosofia. Atti del convegno (Gargano, 28-30 ottobre 2010), Milano, Led, 2012, p. 256.
6 Ivi, p. 255.
7 Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Milano, Cortina, 2009.
8 E. Livraghi, Da Marx a Matrix, Milano, DeriveApprodi, 2006, p. 39.
9 F. Chicchi, Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori, 2012, p. 99. Cfr. anche A. Pagliardini (a cura di), Il reale del capitalismo, Milano, Et al, 2012.
10 S. Tomšič, The Capitalist Unconscious: Marx and Lacan, London, Verso Books, 2015, p. 5.
11 Ivi, p. 6.
12 Ivi, p. 22.
13 Ivi, p. 226.
14 Ibidem.
15 Lacan, Seminaire. Livre vi, Paris, Le Champ Freudien Editeur, 2013, p. 116.
16 Questo tema è presente in molti libri di S. Žižek; cfr. Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 9 e sgg.
17 K. Marx, Il capitale, Roma, Newton Compton, 2011, p. 78.
18 S. Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, Firenze, Ponte alle Grazie, p. 45. Žižek cita qui una frase di P. Sloterdijk.
19 Più di recente, Recalcati ha cercato di mitigare l’opposizione tra desiderio e godimento, considerando la natura particolare del godimento femminile, che si pone come alternativa a quello fallico maschile, e ne delude le pretese perverse e totalizzanti. Esso impone all’interno stesso della pulsione la percezione di un «non-tutto», riscoperta della parzialità e dell’amore, che la pulsione maschile è incapace di attingere se permane nella sua unilateralità. Cfr. Jacques Lacan: vol. i, cit., p. 467 e sgg.
20 «L’Altro non rappresenta più una barriera entro cui riconoscere la propria presenza e limitare la propria azione, bensì l’ostacolo competitivo alla propria soddisfazione […], l’eccesso diventa momento costitutivo dell’esistenza, descrive un’esistenza schiava di una pulsione mortifera che gestisce le aspettative del soggetto, deviandole verso l’eterna attesa di un godimento sempre nuovo […]. La spinta coattiva al consumo difende il soggetto dal trauma della perdita originaria, eppure lo stritola nell’abbraccio strangolatorio della pulsione di morte» (M. Gatto, Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma, manifestolibri, 2018, pp. 122-123).
21 P. Bianchi, Marx e Lacan, cit., p. 249.
22 Ivi, p. 250.
23 Ivi, pp. 254-255.
24 «Perché mai il Reale dovrebbe essere “sciolto” da qualsiasi mutazione storico-epocale? Il vuoto che attanaglia l’individuo è sempre uguale a se stesso? Non è forse avvolto anch’esso dalla Storia? […] il nostro Reale è l’inefficacia che la simbolizzazione attuale sconta per comprendere il vuoto di senso che attanaglia l’esistenza degli individui sotto il capitalismo finanziario» (M. Gatto, Resistenze dialettiche, cit., p 121).
25 Si tratta in realtà di due cose profondamente distinte, e ciò richiederebbe un discorso a parte.
26 «È in tal senso che la “mancanza a essere” teorizzata da Lacan diventa un possibile arnese analitico, a patto che venga depurata dei suoi assunti destoricizzanti ed eternizzanti di ascendenza strutturalistica: è peculiarità del capitalismo contemporaneo quella di dar vita a un meccanismo perfetto di riempimento provvisorio (e dunque cinico, spietato) di tale mancanza, così come è specificità particolare del soggetto contemporaneo quello di abitare una mancanza che può essere riempita con il ricorso illimitato alla merce e al consumo» (M. Gatto, Resistenze dialettiche, cit., p. 120).
27 J, Lacan, Seminario xi. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1964, Torino, Einaudi, 2003, p. 270.
28 Cfr. Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Macerata, Quodlibet, 2012.
29 Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 42.
30 W. Benjamin, Opere complete, vol. ix, I passages di Parigi, Torino, Einaudi, 2000, p. 399.
31 Cfr. M de Certeau, Fabula mistica. xvi-xvii secolo: 1, Milano, Jaca Book, 2017.
32 E. Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 2009, p. 194. Cfr. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Milano, Adelphi, 1997.