di Rino Genovese
Mi ha fatto notare Antonio Tricomi, in una conversazione privata, che la “lezione svedese” è per lo meno ambigua: se infatti perfino dove c’è stata un’integrazione riuscita degli immigrati, grazie a uno Stato sociale di alto livello, l’estrema destra arriva al 17%, questo è un dato per nulla confortante, che fa pessimisticamente prevedere un ulteriore incremento delle posizioni xenofobe alle prossime elezioni. Inoltre, spingendo più avanti il ragionamento del mio amico, la “lezione svedese” si avvita in un circolo vizioso, è un gatto che si morde la coda: se per difendersi dalla destra estrema, sul piano europeo, si è spinti a dare ancora vita ad alleanze tra centristi conservatori (leggi Ppe) e socialisti e socialdemocratici, ciò potrà forse servire a salvare la situazione qui e ora, ma sul medio periodo – visto che l’immobilismo liberal-liberista ha favorito fin qui la crescita dell’estrema destra – questa riscuoterà maggiori consensi, presentandosi come unica alternativa “sociale” oltre che sovranista.
Il ragionamento non fa una piega. In maniera logica è la rappresentazione di un’impasse. La mia risposta, tuttavia, vorrebbe distinguere due problemi. Il primo, di fondo, è di tipo sociologico, per non dire antropologico-culturale, e ha a che fare con la domanda: di che cosa è segno il ritorno, in chiave nazional-populistica, di un’estrema destra in Europa? Anzitutto – mi sento di rispondere – del fatto che la nozione di globalizzazione, in voga soprattutto un ventina di anni fa, era sbagliata in quanto troppo sbilanciata in senso economicistico e più o meno ottimisticamente progressista. Il nostro non è tanto il tempo della globalizzazione economico-finanziaria, tecnologica e così via, quanto piuttosto quello in cui emerge con forza l’elemento d’ibridazione culturale e storico-temporale del moderno. È una questione che è stata spesso fraintesa con il termine di “postmoderno”. Non si tratta di un “post”, ma del venire in primo piano dell’intera modernità occidentale come un miscuglio di passato e presente e di culture differenti, che soltanto per un periodo tutto sommato breve, in Europa, anche in forza di uno sviluppo economico che sembrava inarrestabile, aveva trovato un suo equilibrio.
Di questo equilibrio, nella composizione tra tradizione e innovazione, i paesi del nord Europa sono stati un modello. Ciò che a prima vista colpisce della Svezia non è soltanto l’aspetto socialdemocratico ma il fatto che in quel paese lo sviluppo, almeno fino a non troppo tempo fa, non aveva rotto con le tradizioni locali, con un insieme di pratiche sociali legate alla religione protestante (si pensi per esempio alla festa del 13 dicembre con le sue candeline, ai riti del Natale, che non a caso sembrano costituire l’unico punto di riferimento ideale dell’attuale partito di estrema destra). C’è, o c’era, uno sviluppo relativamente armonico. Ma questo equilibrio, basato anche sulla specificità di un paese di pochi abitanti, si spezza, o comunque si modifica, sotto la pressione di una questione più ampia e più grave d’ibridazione planetaria come quella costituita dalle grandi migrazioni.
Il riflesso identitario è la precondizione di qualsiasi reazione nazional-populistica, di qualsiasi avanzata elettorale dell’estrema destra in Europa, perfino in Svezia. È un riflesso che fa parte dell’inevitabile ibridazione delle culture e dei tempi storici. Nessun paese è “puro” – e, al tempo stesso, la reazione etnica fino alla xenofobia e al razzismo è tutt’uno con questa costitutiva mancanza di “purezza”. È un profondo processo antropologico e anche psicopolitico, legato alla diffusa paura dinanzi a ciò che è straniero, gonfiato ad arte dagli imprenditori della paura con finalità demagogiche.
Questo dunque lo sfondo generale del primo problema, per la soluzione del quale non si danno ricette immediate e che è destinato a rimanere aperto nei prossimi decenni. A riguardo, ci si può richiamare a una costante educazione alla convivenza e, naturalmente, alla esperienza che gli abiti culturali possono cambiare, e in effetti cambiano sia pure lentamente, in fin dei conti senza troppi traumi.
Un secondo problema è dato invece dalla immediata necessità di far fronte, in Europa, all’emergenza dei nazional-populismi. Qua si tratta essenzialmente di tattica e di manovra politica. Una volta sperimentata l’inconsistenza di un’alternativa di sinistra alla egemonia della signora Merkel – con i vari Mélenchon europei influenzati da sovranismi e populismi, privi di una reale strategia che non sia quella del galleggiamento elettorale –, non si può che optare per una specie di status quo. Oggi una caduta della cancelliera tedesca significherebbe il trionfo della destra estrema e la probabile fine dell’Europa. Si può aggiungere un “ahimè”, ma le cose stanno così. Del resto è la stessa Merkel, sono gli stessi popolari europei che, nella loro maggioranza, avvertono il pericolo e stanno offrendo una sponda a sinistra. Il recente voto contro Orbán (che fa parte del Ppe) nel parlamento europeo è un segnale in questo senso.
Ciò significa che alle prossime elezioni i socialisti e socialdemocratici europei dovranno presentarsi insieme con Macron in un indistinto campo sedicente progressista? No, non è questo il punto. A mio parere, se non altro nei paesi in cui esso è ancora una forza consistente, il socialismo europeo non dovrebbe rinunciare alla propria bandiera. Dovrebbe cercare di riqualificarla, non abbandonarla. È il dopo, cioè la tattica da seguire, quella di un’unità democratica intorno a una Unione europea sotto minaccia, che diventa decisiva. E bisogna quindi che qualsiasi raggruppamento di sinistra si presenti nel 2019 dinanzi all’elettorato in Europa suoni il campanello d’allarme, chiamando a questa unità democratica.
Resta la questione di un cambiamento. A continuare così, senza una maggiore integrazione europea e soprattutto senza un cambio di passo sulle politiche sociali, l’estrema destra non potrà che crescere. Si dovrebbe quindi, a sinistra, avere sia una capacità di compromesso con le forze moderate sia una spinta ideale verso il “meglio”. Quest’ultima, non v’è dubbio, è assente. Far comprendere all’elettorato, ai propri potenziali simpatizzanti, che il compromesso è necessario ma che si deve anche andar oltre, è una capacità che una sinistra schiacciata sull’oggi ha smarrito. I vecchi partiti comunisti, detestabili sotto molti aspetti, avevano però una riserva di senso utopica (sebbene in Unione sovietica si trattasse poi di un’utopia rovesciata) in grado di far accettare i compromessi, talora anche i più bassamente strumentali. Andrebbe ritrovata, declinata in altro modo, un po’ di quella tensione utopica. Di più, al momento, non saprei dire.