di Luca Baiada
Mi rivolgo, anche a nome della Fondazione per la critica sociale, a Paolo Pezzino, nuovo presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, già Insmli.
Sono fra Rigoli e Corliano, vicino a Pisa; qui nel 1944 fu commesso uno dei tanti eccidi nazifascisti. Oggi è un anniversario: tre quarti di secolo fa, nel 1943, gli italiani vissero il duro giorno delle scelte. Niente ordini dall’alto, e quando c’erano magari erano sbagliati, furbi, contraddittori. Una classe dirigente violenta e presuntuosa mostrò la corda, permettendo ai tedeschi l’occupazione del paese.
La Germania non paga i risarcimenti alle famiglie delle vittime dei crimini commessi in Italia, proprio dal 1943 al 1945. Però da qualche anno, con una spesa molto inferiore, finanzia iniziative culturali. La più importante è l’Atlante delle stragi, di cui Lei è il direttore scientifico.
Ho chiamato questa operazione riparazionismo perché sin dall’inizio, eclissati i risarcimenti, si è parlato di riparazione; ma si è detto anche lenimento, memoria attiva, riconciliazione, memoria comune, poi simbolo pesante. Mai giustizia, mai denaro ai veri creditori.
Sono stato sostenuto da familiari dei caduti e da giuristi. Anche alcuni storici mi hanno espresso solidarietà, per lo più in privato. Ho scritto, ho partecipato a convegni, ho sentito il calore di chi non conta niente, e altrove un gelo direttamente proporzionale al potere. Adesso, se c’è il mio nome in un incontro, personaggi influenti scrivono o telefonano di soppiatto all’ente organizzatore, preoccupatissimi.
Da una parte ci sono spalle larghe: la Germania, il Governo italiano, l’Anpi, l’ex Insmli (oggi Istituto Parri, che Lei presiede) e un gruppo di storici. Dall’altra orfani, spesso di famiglia contadina, e loro congiunti.
Un po’ alla volta il silenzio si è incrinato, e quest’anno a Roma, in un convegno senza finanziamenti pubblici, altri storici hanno criticato l’Atlante con parole più scientifiche di quelle dei parenti delle vittime (lo chiamano «piatto di lenticchie» o «monumento funebre tardivo e intoccabile»).
Le promozioni dell’Atlante continuano. Una delle più recenti è stata abbinata a un film tedesco, Il secondo trauma, che svela una scoperta: la mancata giustizia fa soffrire.
Le mie critiche rischiano di diventare ripetitive, noiose. A volte i due punti di vista contrapposti si alternano negli stessi luoghi senza incontrarsi, come i personaggi della casetta in quei vecchi barometri di legno, o si leggono su Internet, dove le discussioni a distanza sanno di battaglia navale in una scodella. A che pro, due fermezze che non dialogano mai dal vivo? Due posizioni, del resto, asimmetriche.
Per Lei l’Atlante è stato fonte di un guadagno (piuttosto modesto, credo) e si inserisce in una carriera fatta di largo credito, frequentazioni importanti, prestigio. A me, insistere in favore delle vittime procura inimicizie, malumori, sospetti che non avrei immaginato. Ma anche doni: conversazioni formidabili, una conca di ciliegie, antichi proverbi, un pennato rugginoso, vin santo al lume delle stelle. E la sensazione di provare a far qualcosa per gli italiani; un piacere col retrogusto. Massimo D’Azeglio nel 1863: «Mi arrabbio continuamente contro le dappocaggini, le invidie, le ignoranze, le pigrizie italiane! Sono nel caso di quelli che s’innamorano di qualche puttana».
Sarebbe bene ragionare su questo tema inserendolo in un quadro più ampio.
Sembra che ci siano da un lato la storia e dall’altro la giustizia, coi loro sottintesi, specialmente in Italia. In fondo, da noi, la giustizia si dà per scontato che funzioni male, e si dice storia per dire che una cosa è andata così e non cambierà. L’importanza di tutto questo travalica persino le stragi. Ci sono dentro violenza, racconto e risarcimento: può riguardare criminalità organizzata e sue coperture istituzionali, sradicamenti forzati e loro contraccolpi, fronteggiamenti identitari, internamenti, persecuzioni politiche, violenze familiari, bullismo, mobbing, dipendenze indotte e altro ancora. È un campo per capire ciò che è stato e progettare il futuro.
Storia e giustizia, narrazione e vertenza, saranno sempre più intrecciate. Da un lato le possibilità si affinano (tecniche di conservazione di dati per il futuro, di investigazione sul passato), dall’altro le soglie giuridiche del danno risarcibile si estendono nella sostanza (danni relazionali, biologici, esistenziali) e nella durata (trasmissione agli eredi, danno ai familiari, con gli interrogativi sull’imprescrittibilità, per esempio dei reati sessuali). La rincorsa tecnologica elettrizza tutto: i conflitti aumentano, la vita media si allunga, ogni essere umano è un segmento della società sempre più esteso, fragile, interconnesso e potenzialmente coinvolto nella violenza e nella trasmissione dei suoi effetti. Ragionare su questo è una frontiera avanzata, proprio perché non è solo teoria.
Ci sono difficoltà. Le istituzioni giudiziarie non sono sedi ideali per la storia e gli istituti storici non sono fatti per la giustizia. Ma queste distinzioni, appunto, sbiadiscono di fronte a crimini eccezionalmente gravi, specialmente se non vale la prescrizione: il passaggio del tempo è giuridicamente irrilevante. Gli storici arrivano, le salme sono sepolte da anni ma i giudici stanno lavorando: è il non luogo del delitto. Intanto i traumi restano e si trasmettono; la narrazione li scava e se finge di sanarli diventa la maschera di un perdono senza fede, il rito di sacerdoti che conoscono più l’accademia che la fratellanza.
I giudici, d’altra parte, accade che manchino ai loro compiti. Il loro tradimento è abietto. Si sa: dei miei colleghi che si sono lavati le mani, il più famoso ci fa brutta figura da duemila anni. Ma non tutti ricordano che la moglie, per metterlo in guardia durante quel processo, gli aveva consegnato un dato emozionale, di quelli che né storici né giuristi chiamerebbero fonte o prova: lascia stare quel giusto, ho sofferto molto in sogno per causa sua (Matteo, 27, 19). Può darsi che quella signora, tempo prima, fosse stata colpita dalla notizia di un subbuglio nel cortile del tempio: grida di «spelonca di ladri!», tavoli dei cambiavalute rovesciati, mercanti cacciati via. Ma il marito, quel giudice, non l’ascoltò. Non conosco storici con una fama così negativa.
Forse un modo per farsi ricordare dopo millenni, per uno storico, che non può fare sentenze sbagliate, sarebbe riconoscere un errore. Per la ricerca storica l’errore è importante; lo sottolineò Carlo Ginzburg nel 1965, poco più che ventenne, a proposito dei saggi di Marc Bloch, e ricordando proprio il circuito fra attività giudiziaria e critica storica notato da Bloch nel 1914. Due storici: quello memore dell’assassinio del padre, Leone, riprende il tema dell’altro, anche lui assassinato.
Giudici, storici, errori. Vite e cicatrici delle persone. La chiave potrebbe essere qui, nella questione della disumanizzazione: l’anestesia sentimentale non permette di andare più a fondo, nella storia come nella giustizia, perché impedisce di vedercisi dentro personalmente. Zenone, nell’Opera al nero della Yourcenar, vede inciso su una trave l’anno 1491: «All’epoca in cui era stato intagliato per fissare un determinato anno che non importava più a nessuno, egli non esisteva ancora, né la donna da cui era uscito. Invertiva quelle cifre come per gioco: l’anno 1941 dopo l’incarnazione di Cristo. Tentava di immaginarsi quell’anno senza rapporto alcuno colla sua esistenza e di cui si sapeva solo una cosa, cioè che sarebbe arrivato. Camminava sulla sua propria polvere». Solo allora, l’alchimista è tutt’uno con la sua sapienza: «L’operatore bruciato dagli acidi della ricerca era insieme soggetto e oggetto, fragile alambicco e, in fondo al ricettacolo, precipitato nero. […] Dal fondo del crepaccio nasceva una chimera».
Alcuni figli di caduti conoscono le nostre posizioni e sono dell’idea che dovremmo parlarne in pubblico, anche per dare nuovo slancio all’impegno per i risarcimenti. È una proposta da raccogliere; anzi, si potrebbe fare un dibattito ancora più ricco, aggiungendo altri nomi.
Adriano Prosperi si è già detto disponibile, darebbe un contributo prezioso. Vorrei che ci fosse Giuseppe Tesauro, presidente della Corte costituzionale nel 2014; ha scritto la sentenza che ha riaperto la strada alle condanne economiche contro lo Stato tedesco (nel collegio c’era anche Sergio Mattarella, ma non osiamo tanto e accontentiamoci di nominarlo). Invitiamo la presidente dell’Anpi Carla Nespolo, e meglio se viene anche l’ex presidente Carlo Smuraglia: conosce la progettazione dell’Atlante e l’anno scorso, in un comunicato, ha disegnato l’eventualità di un’azione legale contro un sopravvissuto a una strage, perché protesta. Spiegandosi meglio, ogni cosa si chiarirà.
Ci vuole un avvocato che abbia partecipato alle battaglie giudiziarie. Scelgo Joachim Lau, così se mi accusano di germanofobia rispondo con Giuseppe Giusti: «Mi si gabella per antitedesco / perché metto le birbe alla berlina…».
Dei due ministri degli esteri al vertice italo-tedesco di Trieste del 2008, quando il riparazionismo ebbe sostegno istituzionale, dubito che accetterebbe l’invito Franco Frattini. L’altro, Frank-Walter Steinmeier, è diventato il presidente della Germania e non se ne parla neanche. Però invitiamo l’Avvocatura dello Stato italiana, che per ordine ministeriale ha preso le difese di Berlino, nei processi civili intentati dalle famiglie. Verrebbe anche un collaboratore dell’Atlante, di quelli piccini, e il nome lo direi all’ultimo momento (via, una piccola sorpresa). Per i parenti delle vittime, libertà di intervenire.
Come sede e contesto niente cose formali, come le presentazioni dell’Atlante alla Farnesina o al Senato, con l’avviso pubblico: «La partecipazione è rigorosamente su invito». E neanche Villa Vigoni a Como, dove l’anno passato sono andati giuristi e giornalisti, anche italiani, su invito della Germania, col finanziamento della Fritz Thyssen Stiftung, una fondazione intitolata a un nazista.
Un convegno di sostanza, a cura della Fondazione per cui sto scrivendo. Si farebbe, al più tardi, a gennaio 2019, magari proprio il 27, per fare qualcosa di più di una ricorrenza. Che memoria, che Costituzione, che democrazia, senza giustizia? E infatti quest’anno, per il Giorno della memoria, il Presidente della Repubblica ha denunciato l’indifferenza e «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati» nello sterminio degli ebrei. Anche per le stragi, è un monito da tenere presente e qualcuno l’ha già fatto.
Queste proposte non si usa farle in pubblico. I convegni si progettano al chiuso, anche perché i rifiuti sono nocivi alla carriera. Ma chi non ha interessi in questa vicenda si permette qualche lusso. E poi c’è una novità: il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato tedesco a risarcire il figlio di un caduto alle Fosse Ardeatine; è la prima condanna civile per quella strage. Tre quarti di secolo, ma il tema è aperto, e se l’Italia trascura le vittime di un massacro trattato anche al processo di Norimberga, allora significa che il Patto d’acciaio prosegue nell’oro.
Di solito è dei magistrati, l’ambizione dell’ultima parola, del testo inconfutabile. La verità con sotto il timbro, l’annotazione: «Irrevocabile». Ma è possibile l’ultima parola su tanto sangue? Questo tema non è solo parola, e se lo fosse non dovrebbe mai essere l’ultima.
Gli storici desiderano la discussione delle loro opere, perciò anche l’Atlante è criticabile. E forse vale anche per loro, quel che scrisse Jacques Vergès, controverso avvocato di nazisti e terroristi: «Quale vergogna – o quale astuzia? – impedisce a giudici e avvocati di confessare anch’essi i loro moventi?».
Un convegno, allora: Le stragi nazifasciste fra giustizia e riparazionismo memoriale. Ci sarebbero altri titoli da prendere in considerazione. L’Armadio della cuccagna: come massacrare migliaia di italiani, pagare poco i loro intellettuali e ricevere ringraziamenti. Oppure: Il giudice e lo storico davanti a un Panzer: parenti serpenti, ma nudi come lombrichi. O magari: Ho detto no a un selfie con Kesselring: «E cortesia fu lui esser villano». Osando: E adesso sfogliami: nella società dello spettacolo, la cultura riparazionista è una bella senz’anima? O anche: Per un pugno di talleri: il cattivo è l’assassino, il brutto è il giudice, ma lo storico è buono? Si può trovare di meglio.
Si parlerà dell’Atlante, ma non solo, ed evitando di farne il capro espiatorio di un’intera classe dirigente. Lei ha meriti indiscussi; penso per esempio al Suo Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro, scritto con Michele Battini. Comunque il riparazionismo non deve rubare la scena, al centro devono esserci le persone, e ogni volta che si affronta un discorso scomodo, c’è sempre il pericolo di cambiare discorso, cioè la necessità di portare avanti il discorso.
Come video di promozione del convegno, trenta secondi da L’armée des ombres, il film del 1969 sulla Resistenza in Francia: nel campo di concentramento è morto il professore cattolico, il suo amico comunista è affranto. Il patriota Philippe Gerbier (Lino Ventura, bravissimo) si avvicina e gli offre una sigaretta, quello rifiuta. Gerbier, con un filo di voce: «Tutti i debiti saranno pagati».
Un’ultima cosa. L’eccidio commesso qui, vicino a Pisa, nell’Atlante non c’è. Si rintraccia leggendo libri e bussando ai casolari.