di Enzo Pace
Da quando i grandi magazzini Harrods sono diventati proprietà della famiglia reale del Qatar1, nei diversi settori commerciali i clienti di religione musulmana possono acquistare prodotti in linea con i precetti della sharia. Dai cioccolatini che non contengono alcol o sostanze derivate dal maiale alle calzature griffate da Gina, Casadei e René Caovilla. Sono vendute all’ultimo piano e perciò il salone porta il nome di Shoes Heaven. Nel reparto dedicato al pubblico femminile musulmano, affluente e alla moda, si possono comprare sandali ricoperti di piccoli gioielli da mille sterline al paio da indossare sotto l’abaya o il niqab. Da Harrods, così come nei magazzini La Fayette di Parigi e in tutti i lussuosi malls dei Paesi del Golfo e del Medio Oriente, le donne musulmane possono ammirare dal 2016 la nuova linea di hijab e abaya disegnata da Dolce&Gabbana. La nota casa di moda non è certo la sola ad essersi accorta delle nuove opportunità di fare affari nel mercato del brand-islam2. Cresce il numero di persone, infatti, che nel vasto e variegato mondo musulmano si affida alle merci per sentirsi a posto con la propria coscienza e per segnalare la propria identità religiosa.
Il consumismo moderno ha piegato alle sue ragioni un complesso sistema di norme religiose che, per brevità, chiamiamo islam. I moderni stili di consumo, che si sono rapidamente affermati negli ultimi vent’anni nel mondo musulmano, sono caratterizzati da due decisivi elementi: da un lato, essi sono vissuti come espressione di una libera scelta individuale (ciò vale soprattutto per le donne che, sino a qualche decennio fa, erano conformisticamente condizionate da modi di vestire e di portamento modesti, da abiti poco appariscenti) e, dall’altro, le merci consumate sono cariche di segni religiosi, che consentono di conformare la propria fede mentre si consuma qualcosa o si acquista un oggetto. In tal senso il profilo di questo consumatore musulmano non è visto dai grandi marchi della moda o dalle grandi corporations che vendono prodotti halal (cioè leciti) come un consumatore passivo, ma come un soggetto consapevole della propria identità religiosa. Perciò la strategia del marketing è orientata a stimolare il consumo offrendo, allo stesso tempo, ampie possibilità di scelta individuale3, che possano apparire conformi ai principi e ai precetti della legge coranica.
Quali implicazioni hanno i modernissimi stili di consumo sull’immaginario dei musulmani e delle musulmane, sia nei Paesi a maggioranza musulmana sia in tutti quei Paesi occidentali, dove esistono da tempo ampie diaspore? In altre parole, che cosa significa che l’islam sia diventato un brand, fatto proprio dalla logica del mercato globale? Che relazione c’è fra tale fenomeno e le trasformazioni socio-economiche che soprattutto i Paesi a maggioranza musulmana stanno vivendo, anche se in modo ineguale? È legittimo, dunque, chiedersi se siamo di fronte a una fase storica in cui l’etica musulmana si mostra capace di diventare elettivamente affine allo spirito del capitalismo neo-liberista. Per meglio circoscrivere l’oggetto delle riflessioni che seguono, la domanda potrebbe essere riformulata nel modo seguente: se e sino a che punto lo spirito d’impresa capitalistica trovi crediti morali nell’etica musulmana, quando soprattutto l’attività produttiva è finalizzata non solo al consumo ma anche a facilitare l’identificazione (la fidelizzazione di mercato) dei consumatori in quanto musulmani.
Tale processo può avvenire in diversi modi. Uno di questi è il portare addosso merci che lascino immaginare di poter essere donne e uomini di fede musulmana e che, al tempo stesso, fanno sentire di essere all’ultima moda. L’altro è la scrupolosa osservanza di precetti religiosi buoni da mangiare, consumando cibi religiosamente sani, che non contaminino l’anima e il corpo. L’ultimo, in ordine d’importanza, educare ai consumi correttamente islamici le nuove generazioni: dai giocattoli alle bevande analcoliche compatibili con le regole della sharia. La moderna cultura dei consumi nel mondo musulmano sembra andare oltre la logora dicotomia tradizione/modernità, oltre la polarità maschile/femminile e, infine, oltre la relativa autonomia di alcune fondamentali sfere della vita sociale (l’economia e il denaro, in particolare) dalla religione. In Indonesia, uno dei Paesi a stragrande maggioranza musulmana, per esempio, l’interesse a consumare merci garantite come doc-musulmane, non costituisce un naturale rifugio da parte di chi si sente spaesato e indifeso di fronte al capitalismo globale. Si tratta piuttosto di un nuovo habitus mentale che si è affermato proprio in relazione dialettica con il turbo-capitalismo mondiale. Tale habitus è l’espressione di un’etica individualistica dell’auto-realizzazione, che si affida anche al consumo di merci, oggetti, cibi, vestiario che incorporano simboli religiosi. In tal modo, nei mondi vitali degli individui si configura una visione etico-religiosa compatibile con lo spirito del capitalismo neo-liberista. Allo stesso modo tutto ciò, infine, stimola lo spirito d’impresa sia nel caso in cui siamo di fronte a imprenditori di nascita e di formazione religiosa musulmana, sia in quello in cui imprenditori non-musulmani creativamente inventano linee di merci e prodotti che possano apparire, agli occhi dei consumatori, compatibili con i loro precetti religiosi4. Un solo esempio per tutti. Due giovani stiliste che lavorano e risiedono a Londra hanno creato la Sister Couture per una clientela femminile musulmana, una linea di capi di abbigliamento che combini: “faith, modesty, style & inspiration: promote your faith, uphold your modesty, define your style and be an inspiration to others”. Così si legge nel sito della casa produttrice (http://www.urban.muslim.co.uk) .
La quintessenza dell’etica musulmana riposa sulla canonica dicotomia lecito/illecito (halal/haram), che rinvia all’altra coppia simmetrica puro/impuro. Su tale dicotomia i sapienti e i giuristi musulmani si sono a lungo cimentati in epoca medioevale per definire chiaramente i confini fra i due ambiti, spesso riconoscendo che esiste una terra di mezzo, dove non è facile marcare nettamente le differenze.5 Mantenersi in uno stato di purezza rituale nella vita quotidiana ed evitare tutto ciò che possa corrompere l’integrità fisica e morale di una persona, è il risultato di uno sforzo metodico, di una disciplina etica cui quotidianamente il credente si sottopone per essere obbediente a Dio e ai suoi comandamenti. Si tratta di una forma di ascesi intramondana che abitua un individuo a razionalizzare le condotte di vita, a calcolare e misurare se un certo comportamento (dal cibo che si mangia all’abito che si indossa, dalla provenienza del denaro che si riceve al coltello con cui si sgozzano ritualmente gli animali e così via) è coerente o meno con la legge divina. Una delle garanzie morali che un credente può acquisire così facendo, è rappresentata dallo scrupolo puritano che, in ogni azione quotidiana, porta un individuo a controllare i propri comportamenti. Dal momento che l’islam, per quanto riguarda la sua dottrina sociale ed economica, come ha sostenuto in modo convincente Maxime Rodinson6, non ha mai scoraggiato la proprietà privata, la ricerca del (sano) profitto e lo spirito d’impresa (Maometto gestiva una fiorente azienda commerciale a Mecca), l’etica puritana o l’ascetismo intramondano dei musulmani non ha posto reali ostacoli allo sviluppo di forme di proto-capitalismo in epoca moderna7 e di modelli di tipo capitalistico in epoca post-coloniale, soprattutto in una determinata area del mondo musulmano che si estende dai Paesi del Golfo sino all’Indonesia e alla Malesia8.
Siamo lontani anni luce da quanto scriveva nel suo diario americano, Sayyid Qutb9, inviato nel 1948 dal governo egiziano negli Stati Uniti per studiare il modello educativo americano. L’America è descritta (ante litteram, prima ancora di Khomeyni) come il grande Satana, una minaccia micidiale per l’islam. La seduzione del modello economico e sociale di tipo capitalistico sulle menti dei musulmani avrebbe distrutto dalle fondamenta la loro identità religiosa. Essi sarebbero caduti preda, secondo Qutb, degli istinti animaleschi che tale modello stimolava, favorendo il consumismo più sfrenato e forme di depravazione morale. Da Qutb in poi, il pensiero radicale si è diffuso, alimentando l’utopia della restaurazione di una forma-Stato che riproducesse la città virtuosa di Medina, retta e governata da pii e illuminati califfi in nome della Legge di Dio (sharia). I metodi sperimentati dai gruppi combattenti per realizzarla sono stati nel frattempo vari e, sinora, senza risultati significativi: nessuna creatura politica, infatti, che somigliasse al califfato è nata o, quando ha cominciato a muovere i primi passi, ha mostrato subito la sua costituzionale fragilità e inattualità. Nel frattempo, in un’area del mondo musulmano fra le élites al potere e nella nuova classe media si faceva strada la convinzione che il libero mercato globale e le opportunità di crescita economica offerte dal capitalismo finanziario non costituissero affatto una minaccia per l’islam10.
Questa nuova classe media è emersa soprattutto nei Paesi del Golfo così come in Turchia, Indonesia e Malesia. Essa idealmente si salda con i ceti borghesi che si sono formati all’ombra dei nuovi stati nazionali post-coloniali dal Mashreq al Maghreb, compositi ma allo stesso tempo accomunati dall’idea di una modernizzazione rapida dello Stato e della società, riflesso di una separazione funzionale della sfera della politica da quella religiosa. Tecnocrati, manager di grandi corporazioni statali, accademici, esponenti delle nuove professioni (avvocati, giudici non dei tribunali religiosi, insegnanti, imprenditori, gestori di importanti catene alberghiere e così via) formano oggi uno strato sociale intermedio fra ciò che resta della rendita terriera e il ruolo sempre potente delle élites militari, formate nelle accademie militari con soggiorni all’estero (soprattutto negli Stati Uniti) presso istituti di intelligence. La nuova borghesia rispetto a quella che era già emersa nel processo di nation-building post-coloniale ha costruito le sue fortune e la sua identità non più solo all’ombra degli Stati e degli apparati di potere creatisi attorno al blocco economico-militare che in moltissimi casi regge le sorti politiche dei Paesi a maggioranza musulmana. La differenza, inoltre, fra questi due tipi di borghesia è presto detta: per la prima la fedeltà alla propria identità religiosa (musulmana) può essere testimoniata e realizzata in una società di libero mercato, aperta ai consumi, dove i capitali finanziari possano affluire ed essere investiti nella speculazione edilizia così come nella costruzione di centri commerciali (sempre più grandi e lussuosi). Per la seconda – diremmo quella storica – la difesa dell’identità religiosa è di secondaria importanza; cresciuti alle dipendenze degli apparati dello Stato, i ceti borghesi sono più laici, coltivano ancora il nazionalismo e sono apertamente ostili a ogni formazione politica di ispirazione musulmana.
Se si visitano i nuovi quartieri che sono sorti rispettivamente a Istanbul (soprattutto nella parte asiatica di Üskudar – l’antico quartiere di Scutari – e Maltepe), Ankara, Bursa o Izmir, ai tempi del partito Giustizia e Sviluppo di Tayyip Erdoğan, ciò che colpisce non sono solo i moderni grattacieli edificati su aree dove sorgevano sino a pochi anni fa case abusive in condizione degradate o resistevano ancore le poche aree verdi urbane, ma la costruzione allo stesso tempo di grandi centri commerciali e grandi nuove moschee. Queste ultime sembrano rassicuranti certificati di garanzia (un halal grezzo per farsi perdonare la colata di cemento che sta cambiando il volto di molte città turche); dichiarano che lo sviluppo e la speculazione edilizia, accompagnata da un vistoso consumismo, sono cosa buona e giusta per la coscienza musulmana. Fa sorridere, perciò, l’attuale linea dell’amministrazione americana, sotto la guida di Donald Trump, che ha imposto ai Paesi del Golfo, con a capo l’Arabia Saudita, di rompere i rapporti con il Qatar, accusato di essere uno dei maggiori fiancheggiatori del terrorismo internazionale. Il Qatar – così come Dubai e, in misura minore, Abu Dhabi – continua ad attirare l’attenzione della nuova classe media di tutto il mondo musulmano, che vede concretamente realizzarsi lo spettacolo di un islam moderno, compatibile con il lusso, i consumi, i lucrosi investimenti finanziari, le opportunità di business e la libertà per architetti, designer, manager di attività culturali, di inventare soluzioni architettoniche, aprire musei e auditorii per la musica stupefacenti (come quello voluto dall’emiro dell’Oman), e così via. Non occorre più andare a New York per ammirare i progressi della scienza, della tecnologia e dell’economia. Basta ora recarsi in un Paese che veste alla musulmana (con donne velate e uomini d’affari con la jalabyia) per convincersi che si può essere piamente moderni.
Su questo sfondo il rapporto fra l’etica musulmana delle nuove classi medie si combina con gli stili di consumo influenzati dal libero mercato e dal capitalismo globale, a patto che le merci incorporino segni di identità e di appartenenza a una religione come l’islam. Decidere di indossare un hijab firmato da Dolce&Gabbana o bere Mecca-Cola risponde a due esigenze fondamentali: lasciarsi attrarre da un capo di abbigliamento griffato e, al tempo stesso, sentirsi in pace con la propria coscienza. Lo hijab firmato o la bevanda Mecca-Cola consente a chi l’acquista e consuma di distinguersi da chi musulmano/a non è.
Nel caso della Mecca-Cola l’elemento di distinzione è stato sapientemente rafforzato mediante la comunicazione commerciale che ha accompagnato il lancio di questa bevanda nel 2002. Prodotta dall’imprenditore franco-tunisino, Tawfiq Mathlouthi, a imitazione della bevanda Zam-Zam (prodotta sin dal 1980 in Iran), oggi è venduta in 60 Paesi nel mondo, per una media di 20 milioni di litri all’anno, diffusa non con l’aiuto delle grandi catene commerciali, ma solo attraverso le reti di piccoli negozi sparsi nel mondo musulmano, fra l’Europa, gli Stati Uniti e il Canada. Da qualche anno è iniziata una campagna di diffusione in alcuni Paesi dell’Africa Sub-sahariana. La trovata pubblicitaria è stata quella di immettere nel mercato una bevanda che sfidasse apertamente il gigante Coca-Cola e che potesse essere usata come mezzo di solidarietà per la causa palestinese. Si dichiarava, infatti, sin dalla prima campagna pubblicitaria, che una percentuale dei ricavati (pari al 2%) sarebbe stata destinata a una fondazione per gli aiuti alla popolazione palestinese nei territori occupati. Negli spot pubblicitari lo slogan era molto chiaro: Mecca-Cola, Be Different.
Vestirsi, nutrirsi, fare affari, scegliere un partner sono diventati comportamenti sempre più codificati non tanto in base a precetti religiosi astratti, quanto piuttosto a stili di vita compatibili e coerenti con la sharia. La conformità è vissuta (e non più avvertita come imposta) attraverso il consumo del bello, del buono e del giusto. Tutto ciò mostra come l’islam sia entrato a far parte integralmente del mondo dei consumi senza troppi problemi etici, dal momento che, sotto l’apparenza del rispetto di tradizioni e precetti religiosi, le nuove generazioni, in particolare, si sentono moderne, consumando anche simboli religiosi. Consumatori glocali: aperti al mercato globale, convinti di poter rimanere fedeli al proprio universo simbolico-religioso. Il mondo dei consumi riesce a soddisfare la doppia esigenza di poter scegliere individualmente (ciò che è bello, buono e giusto) e di incorporare la religione negli stili di vita. In tal modo, tuttavia, si consuma anche la religione.
1 Si tratta di uno dei tanti affari conclusi nel Regno Unito da una delle varie holdings finanziarie qatariote dal 2005 a oggi. I magazzini Harrods sono stati rilevati dall’ultimo proprietario, l’egiziano Al-Fayed (il cui figlio era noto alle cronache per la sua relazione con Lady Diana), nel 2010. Il Qatar, tra l’altro, è azionista sia dell’aeroporto Hethrow (20%) sia della British Airways (20%). Ha acquistato immobili, palazzi e hotel di lusso nell’esclusivo quartiere di Canary Wharf. Altrove in Europa, la Qatar Investiments si è accaparrata una fetta consistente di azioni della Volkswagen (17%); ha comprato una squadra di calcio francese (il Paris Saint-Germain) e la famosa casa di moda Valentino; controlla il 10% delle azioni di una delle più potenti catene di grandi magazzini e supermarket come El Corte Inglés. L’elenco potrebbe allungarsi, dal sistema delle comunicazioni gestito dalla qatariota Ooredoo GSC alla Royal Dutch Shell, dalla Banca Barclays alla Rossneff Oil (compagnia russa). Fuori dell’Europa, grandi compagnie asiatiche che erogano elettricità sono di coproprietà del Qatar, mentre in Russia l’aeroporto di San Pietroburgo è in parte in mano a una finanziaria della famiglia reale qatariota.
2 Questa formula è entrata a far parte del gergo sia degli studiosi del mondo musulmano e delle sue trasformazioni socio-culturali sia delle grandi e medie aziende che offrono prodotti e servizi a un pubblico interessato a consumare in conformità alle regole della sharia. Una quota consistente di tale pubblico è oggi rappresentato da donne e dalle coorti giovanili. Secondo Fortune (numero di luglio 2015), nel 2013 complessivamente i consumatori di cultura e fede musulmana hanno speso 266 miliardi di dollari solo per abbigliamento e scarpe: una somma pari a quanto hanno speso italiani e giapponesi assieme nello stesso anno. Tale cifra è destinata a raddoppiare nel 2020. Per un’analisi più specifica cfr. Nilufer Göle, “The Voluntary Adoption of Islamic Stigma Symbols”, Social Research, 2003, 3, 809-828; Muhammad Nazlida Hashim, “The Constructs Mediating Religions’Influence on Buyers and Consumers”, Journal of Islamic Marketing, 2010, 2, 124-135; Hossein Godazgar, “Islam in the Globalized World: Consumerism and Environmental Ethics in Iran” in L. Thomas (ed.), Religion, Consumerism, and Sustainability Paradise Lost?, Basington: Palgrave MacMillan, 2011; Fatema Mohsina et al., “Shari‘a Compliance in Building Identified Islamic Brands”, European Journal of Business and Management, 2013, 5, 10-16 (special issue on Islamic Management and Business); Reina Lewis, Muslim Fashion: Contemporary Style Cultures, Durham: Duke University Press, 2015; Faegheh Shirazi, Brand Islam: The Marketing and Commodification of Piety, Austin: University of Texas Press, 2016.
3 Lo dichiara con molta chiarezza Rabia Z, una giovane Muslim designer, che ha creato una linea di moda chiamata Conservative Chic Fashion, in un’intervista rilasciata alla Televisione Al-Jazeera il 1 gennaio 2016, in una trasmissione dedicata alle firme emergenti della moda islamica: “Sono felice nel constatare che la moda straniera sia entrata nel mondo dell’industria della moda castigata. Ciò implica maggiori scelte per il consumatore. Tuttavia desidero chiarire che la produzione di capi di abbigliamento venduti come brand non è solo finalizzata a far quattrini. Ci metto l’anima nel mio lavoro perché per me è un modo per rafforzare le donne musulmane dando loro la possibilità di scegliere, per potersi esprimere liberamente”.
4 Su questi temi rinvio rispettivamente a D. Rudnycky, “Spiritual Economics: Islam and Neoliberism in Contemporary Indonesia”, in Cultural Anthropology, 2000, 1, 98-120; D. Assadi, “Do Religion Influence Customer Behaviour?”, in Cahiers du CEREN, 2003, 5, 2-13; J. Grant, Made with: Brands, Creations and Entrepreneurs from Emerging Global Interland, London, LID, 2013; T. Martikainen, F. Gauthier (eds.), Religion in the Neoliberal Age, London: Routledge, 2013; F. Gauthier, T. Martikainen (eds.), Religion in Consumer Society, London: Routledge, 2013.
5 Uno dei più famosi trattati sul tema è stato scritto da Abū Ḥāmid Muḥammad Ibn Muḥammad Aṭ-ṭūsī al-Ghazālī (1058-1111), Kitāb al-halāl wa al-harām (Le livre du licite et de l’illicite), Beyrouth, Les Éditions Al-Bouraq, 1999.
6 Cfr. di questo autore Islam et capitalisme, Paris, Seuil, 1966 (trad. it. Torino, Einaudi, 1968).
7 Il caso più rilevante è rappresentato dalla Turchia sotto la guida di Mustafa Kemal, che impone un modello di Stato laico e contemporaneamente avvia una modernizzazione economica che presenta molti tratti propri della formazione socio-economica di tipo capitalistico. La Turchia del capitalismo verde, neo-liberista, di Erdoğan è, in fondo, l’evoluzione e la maturità del precedente modello kemalista, che a parole l’attuale classi dirigente filoislamica vorrebbe superare dal punto di vista politico.
8 La Malesia è diventata il più importante centro di certificazione dei prodotti halal. Per un’analisi del fenomeno cfr. F. Bergeaud-Blackler, J. Fisher (eds.), Halal Matters, London, Routledge, 2015 e F. Bergeaud-Blackler, Le marché halal ou l’invention d’une tradition, Paris, Seuil, 2017.
9 Sayyid Qutb (1906-1966) è stato un uomo politico e scrittore egiziano che ha contribuito, più di altri, a definire i contorni del moderno pensiero fondamentalista e, di conseguenza, ad abbozzare la teoria della lotta armata contro il neo-colonialismo in tutte le sue forme: come continuazione della politica di potenza da parte dell’Occidente (in primis gli USA) attraverso le nuove élites politiche arabe, che avevano guidato i movimenti d’indipendenza nel secondo dopoguerra. Dopo aver militato nel partito liberale e laico Wafd, Qutb si affilia ai Fratelli Musulmani (FM), all’indomani del suo viaggio di studio negli Stati Uniti. Nel 1952 collabora attivamente, in quanto membro della Fratellanza, al colpo di Stato contro la monarchia di re Fāruq organizzato dal Movimento dei Liberi Ufficiali, guidato da Nasser. In seguito alla rottura dell’alleanza fra quest’ultimo, divenuto capo di stato, e i FM, dovuta alle mancate riforme in senso islamico che i Fratelli si attendevano da Nasser, Qutb diviene molto critico nei confronti del nuovo regime. Nel 1952, dopo il fallito attentato a Nasser, quest’ultimo accuserà la FM di aver tramato contro di lui; scioglierà, perciò, l’associazione, arrestando molti militanti, fra cui Sayyid Qutb. Scarcerato per un breve periodo nel 1964, Qutb verrà di nuovo arrestato e condannato a morte nel 1965. La sentenza sarà eseguita un anno dopo. In carcere Qutb scriverà due testi, entrambi rilevanti per la prima formulazione del pensiero fondamentalista: All’ombra del Corano e Pietre miliari. La tesi di una radicale incompatibilità tra islam e lo spirito del capitalismo vi è chiaramente enunciata, così come, in modo altrettanto netto, è affermata la necessità di una lotta senza quartiere contro le nuove classi dirigenti arabe che con il loro nazionalismo di facciata avevano in mente, secondo Qutb, un modello di società e di stato che separa politica e religione, facendo in tal modo regredire le società musulmane alla condizione di ignoranza (jahilliya) che caratterizzava il periodo storico prima dell’avvento dell’islam. Su questo importante pensatore, cfr. G. Kepel, Le Prophète et le Pharaon, Paris, La Découverte, 1984 (trad. it. Il profeta e il faraone, Roma-Bari, Laterza, 2006); M. Campanini e K. Mezran, I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, Torino, Utet, 2010; P. Manduchi, Questo mondo non è un luogo per ricompense. Vita e opere di Sayyid Qutb, martire dei Fratelli Musulmani, Roma, Aracne, 2009. Si può leggere il diario americano di Qutb nella traduzione italiana curata da Davide Tacchini, Radicalismo islamico, con il diario del soggiorno americano di Sayyid Qutb, Milano, O Barra O Edizioni, 2015.
10 Sulla formazione di una classe media affluente e consumista, antitetica alle tendenze radicali e a quelle nazionaliste, si veda V. Nasr, The Rise of Islamic Capitalism, New York, Free Press, 2010. Nasr è un influente scienziato della politica, di origini iraniane, preside della John Hopkins School for Advanced International Studies.