di Luca Lenzini
[Intervento all’incontro A cosa servono gli intellettuali oggi, Torino, 20 aprile 2017].
«You call it luck, I call it destiny»
Danny Dravot a Peachy Carnehan,
The Man who would be a King
1. «Ah elle est bonne!»
Negli anni Settanta Gilles Deleuze e Michel Foucault negavano apertamente agli intellettuali il diritto di “parlare per gli altri”, in coerenza con una contestazione altrettanto radicale del concetto di rappresentanza. Per questo un libretto che raccoglie le conversazioni di quel periodo tra Deleuze e altri (oltre a Foucault, Toni Negri, Félix Guattari, Guy Dumur), riproposto ora in Italia da Medusa, può legittimamente intitolarsi La fine degli intellettuali1. La prospettiva in cui s’inserivano quei discorsi, infatti, era in chiave con una idea di rivoluzione sociale – niente di meno – quale a partire dalla fine del decennio precedente aveva avuto corso non solo in Europa, ma anche negli U.S.A. e in America latina. Verso la fine degli anni Ottanta Zygmunt Bauman pubblicò poi un libro intitolato Legislators and Interpreters2, titolo che nell’edizione italiana passò a sottotitolo, mentre nel frontespizio ne campeggiava un altro, La decadenza degli intellettuali3. Potrebbe sembrare che vi sia continuità tra la fine auspicata da Deleuze e la decadenza annunciata da Bauman, ma le prospettive erano invece profondamente diverse e c’era di mezzo una svolta epocale. Non a caso, Bauman in chiusa al suo saggio affrontava di petto il tema del Post-moderno, e lo faceva riproponendo in positivo una tradizione coincidente con quella stessa della Modernità, ovvero il progetto di emancipazione e autonomia di cui la cultura neoliberista, presentandosi come continuatrice, si è in realtà bravamente sbarazzata. Chissà se il traduttore italiano (o l’editore stesso di Legislators, Alfredo Salsano, un intellettuale d’indubbio spessore), così interpretando il titolo del libro, abbia allora inteso connotare l’evoluzione (o involuzione) indicata da Bauman partendo dall’assunto che l’idea di decadenza, a quell’altezza, faceva ormai parte dei luoghi comuni, incluso quel tanto di ridicolo che dall’ultima fin de siècle accompagna la categoria, sia pure indistinta nei lineamenti sociali e ridotta a postura o stereotipo. Certo è che la revoca del “mandato”, per dirla con il Fortini dei Sixties, avveniva ora per opposte ragioni, non più “dal basso” e in vista del mutamento, ma dall’alto e per mantenere lo status quo di una società sì divisa, ma normalizzata e come tale regolata da saperi settoriali, specialistici. Del resto, Herbert Lottman in La rive gauche (1983) aveva pur dipinto la parabola di progressiva emarginazione del ruolo degli intellettuali francesi tra il “Fronte Popolare” e la “Guerra Fredda” chiudendo il suo ampio affresco con una battuta da Fin de partie di Samuel Beckett: «Significare? Noi, significare? Ah, questa è buona!»4.
È una battuta che i frequentatori degli infestanti talk show dei nostri giorni potrebbero assumere a motto distintivo, ma quanto all’interprete traduttore di Bauman, se è possibile che abbia un po’ banalizzato i contenuti proposti dal libro, proprio così, d’altronde, coglieva l’aura di presunzione ingiustificata, sorpassata dai tempi, propria degli esponenti della corporazione, adeguandosi all’umore che da allora in poi avrebbe fornito il tono alla pronuncia della parola, un’inflessione inconfondibile e tale da renderla, alla lunga, impronunciabile in certi ambienti senza l’accompagnamento della mimica citazionale, o almeno l’ammiccamento ironico dovuto verso chi ha un po’ scarso il principio di realtà e ha tentato un puerile bluff impietosamente smascherato dalla Storia. La decadenza, a farla breve, faceva tutt’uno con la masochistica e rovinosa débacle della sinistra, tanto da esserne inseparabile. Se già nei romanzi di Bianciardi (sempre nei ruggenti Sixties) l’intellettuale “organico” era materia parodizzabile, ora a essere ridicola non era solo l’idea di “parlare per gli altri”, ma la stessa pretesa d’interpretare il mondo (non si dica di cambiarlo), essendo il mondo così com’è perché così è l’essere del mondo, punto e basta, assunto da cui deriva tutto il resto.
2. Il Giardino
C’è nel libro di Bauman un capitolo che s’intitola Guardiacaccia che diventano giardinieri – nulla a che vedere con D. H. Lawrence – e si occupa del «passaggio dalla cultura spontanea dell’età premoderna alla cultura da giardino della modernità»5, dove il Giardino è metafora della cultura razionale, strumentale, che s’impone tra il Seicento e l’Ottocento in Europa, con il suo ideale di “rischiaramento” e di governo ordinato della società che costituiva – si direbbe oggi – la mission specifica dell’intellettuale. Gli autori trattati da Bauman sono, tra gli altri, Hobbes, Spinoza e La Rochefoucauld, ma la descrizione di quel passaggio, segnato da una «lunga, sempre feroce e spesso rabbiosa crociata culturale», dal «riassetto del potere sociale nel senso del diritto all’iniziativa e al controllo sul tempo e sullo spazio ; della graduale instaurazione di una nuova struttura di dominio»6, suona nel complesso familiare a chi è vissuto nell’ultimo trentennio, anche se del cambio di paradigma costui ha dovuto subire la versione neoliberista, al suo peggio e senza rischiaramenti. Ecco allora che, in piena Postmodernità, nel 2013, è apparso un bel libro intervista di Enzo Traverso, Où sont passés les intellectuels?, titolo tradotto in italiano Che fine hanno fatto gli intellettuali?7, e anche qui si noterà l’accento posto sul motivo della Fine, che non fa che portare a compimento la Decadenza annunciata un ventennio prima da Bauman e dai suoi interpreti. Una fine che non smette di finire, dunque? In questo libro vi sono, in realtà, come in quello, dello stesso anno, di Rino Genovese, Il destino dell’intellettuale8, molti utili spunti per interpretare non solo la storia degli intellettuali dall’Illuminismo al Novecento (a partire dal “caso Dreyfus”, 1894-1906, decisiva insorgenza a cavallo dei secoli), ma soprattutto l’oggi9, e anche se il primo capitolo del libro di Traverso, Dalla nascita all’eclisse degli intellettuali, ci riporta nel solco appena visto (“eclisse” resta nella famiglia semantica della décadence), il discorso non vi si riduce al solito funerale, ma abbozza persistenze e resistenze di cui tener conto, percorsi non obbligati e magari carsici, ma non per questo meno sollecitanti, come per esempio la ripresa del pensiero di Daniel Bensaïd10. Come sintetizza il risvolto di Che fine hanno fatto gli intellettuali?, all’Eclisse presiede una pluralità di motivazioni, «la fine delle utopie del Novecento, la svolta conservatrice degli anni Ottanta, la mercificazione della cultura, le disillusioni di una generazione», nonché la sostituzione dell’intellettuale con «l’esperto al servizio dei potenti e dallo specialista nella comunicazione». Tale è il paesaggio che abbiamo di fronte – le componenti ci sono tutte, fine, eclisse, disillusione, decadenza (manca il tramonto, ma è implicito, e sta per arrivare), costellazione che sta divenendo, a dire il vero, un po’ uggiosa e ripetitiva. Irriso da destra e da manca, bistrattato dall’alto e dal basso, non sarà che il povero intellettuale dei nostri giorni potrebbe, proprio ora che non ha nulla da perdere – con tutto quel vento dei tempi in piena faccia – riprendere in mano il proprio destino? Così, nello stupore generale, e senza chiedere permesso ad alcuno, tanto per non lasciare indisturbato il dominio di una classe politica tra le più impresentabili dell’era moderna…
È quanto prova a fare, meritoriamente, Tomaso Montanari in Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2017), libello militante nel senso nobile del termine che però, tra le tante sue sacrosante battaglie sull’università, la scuola e la gestione della cultura in genere nel nostro paese – temi su cui insiste, con lucida ostinazione e altrettanta competenza, e su cui bisognerà riflettere con pari rigore – resta spesso impigliato nella polemica con il cosiddetto «renzismo», variazione sul tema del «berlusconismo». Qui è bene rammentare che anti-berlusconismo e anti-renzismo hanno rappresentano e rappresentano, nell’interpretazione corrente (personalistica e localistica), nient’altro che fenomeni di mistificante retroguardia, tali da fornire comode patenti “di sinistra” ai loro esponenti, al tempo stesso esonerando – ambiguo collante per “opposizioni” di cortissimo respiro e di contraddittoria ispirazione – dal cogliere le radicali e capillari trasformazioni generate dal neoliberismo nel corpo della società, processi in atto ormai da oltre un trentennio, con l’attiva e decisiva connivenza delle “sinistre di governo”. Ma certo, con gli occhi a questi anni e alle generazioni che ne hanno vissuto i drammatici risvolti, come dimenticare il disincanto che diventa cinismo, il cinismo che diventa decisionismo, per non parlare di questo che si traduce in tracotanza e quest’ultima in Governance, mentre lo spazio del pensiero critico, tra opinionismo e specialismo, diviene appannaggio di alcune star addette appunto a questo esercizio nei magazines o nei blog planetari? A Montanari, come a Traverso e a Genovese, per fortuna non importa far da giardinieri negli orti della Globalizzazione, né vengono meno, per loro, le ragioni di quella che, riprendendo Adorno e Saïd, Traverso chiama la «dissonanza», l’atteggiamento di chi «mette in discussione il potere, contesta il discorso dominante, provoca il disaccordo, introduce un punto di vista critico»11. Da qui si dovrà riprendere il discorso, con molta pazienza e senza facili approssimazioni, rifuggendo da quella generica, funesta e malmostosa protesta che è figlia, insieme, dell’impotenza e della messa al bando della riflessione critica.
3. Dreyfus e dopo
Sono pochi gli intellettuali italiani che senza pentimenti han sempre trattato la cultura come “bene comune” e tentato «di trovare un senso politico e sociale» alla propria attività, interrogando «i testi letterari in cerca di un segno dei tempi che possa dare significato alla nostra esistenza»: parole, queste, di Romano Luperini, uno di quei pochi, che nel licenziare la sua ultima raccolta di saggi, Tramonto e resistenza della critica avverte però il lettore che «il genere saggistico, come momento di tensione fra impegno etico–politico e impegno letterario e culturale, è ormai al tramonto», e che tale tramonto s’iscrive nell’esaurimento della «figura storica dell’intellettuale quale si era andata delineando dall’Illuminismo a oggi»12. Dunque il saggio stesso, che del pensiero critico è uno dei più prestigiosi strumenti, rappresenta una forma espressiva «ormai sostituita dall’intrattenimento giornalistico e dallo studio accademico», ragion per cui Luperini stesso non scrive più saggi, ma soltanto romanzi e racconti, mirando a raggiungere, come ha sottolineato in più di una intervista, un pubblico più largo di quello “specialistico” o accademico, così riagganciando ambiti sociali, interazioni e speranze ormai date per estinte o precluse all’intellettuale.
La domanda che inevitabilmente si pone, a questo punto, è: chi o cosa garantisce che in un contesto in cui sin dall’infanzia si è allevati a trattare tutta la cultura, non solo la letteratura e i romanzi, come “beni di consumo”, anche i suoi racconti – o queste righe che sto scrivendo – non siano fruiti come forma d’intrattenimento? Credo e spero che l’ipotesi di una lettura “dissonante”, sia della letteratura sia del mondo, resti sempre aperta, e anzi, condivido l’idea di chi pensa che ipotesi del genere nascano dentro (e insieme contro) la cultura dominante, sicché a questo livello non importa granché il “genere” praticato, e penso che la sfida vada tentata comunque, stimolando vecchie e nuove domande sul mondo. Gli esiti possono essere invisibili a breve e situarsi on the long run. Forse qui la letteratura può davvero avere qualche chance in più della critica, ma perché rinunciare agli strumenti che ci offre una tradizione, quella appunto del pensiero critico, oggi non meno necessaria di ieri?
A mo’ di provocazione, mi riallaccerei a questo punto alle pagine di Genovese sul “caso Dreyfus”, crinale storicamente determinante per la posizione dell’intellettuale di cui discorriamo. «Dietro le mie azioni non si nascondono né ambizione politica, né passione di settario. Sono uno scrittore libero, che ha dedicato la propria vita al lavoro, che domani rientrerà nei ranghi e riprenderà la propria opera interrotta […] E per i miei quarant’anni di lavoro, per l’autorità che la mia opera ha potuto darmi, giuro che Dreyfus è innocente… Sono uno scrittore libero, che ha un solo amore al mondo, quello per la verità…». Così Emile Zola su «Le Figaro», il 25 novembre 1897. Dire la verità, non è il compito che, dopo quasi un secolo, il citato Edward Saïd affidava all’intellettuale (Representations of the Intellectual, 1994, e lo ripete oggi, tra gli altri, Montanari)? Benissimo: ma al tempo delle “fake news”, degli “alternative facts” e della “Disinformazia”13, come la mettiamo, se non passa giorno che un qualche scandalo non venga sbandierato dai media, per esser poi dimenticato il giorno dopo? Il nuovo Zola potrebbe essere Roberto Saviano, nella prospettiva della tradizione degli intellettuali engagés e con l’autorità conferitagli da un’opera di denuncia affatto equivoca, ma ohibò, tiene una rubrica sull’«Espresso», sicché fa parte della compagnia di giro degli opinionisti – e potete star certi, poi, che su Dreyfus i confusi e litigiosi resti della Sinistra avrebbero preso almeno cinque posizioni diverse.
4. Angeli & sfigati
Quando, dopo l’elezione di The Donald o dopo la Brexit, osserviamo sul monitor in chiaroscuro la rappresentazione geografica del voto, quel che vediamo è il rendering del fallimento del progetto progressista, o per usare i termini di Bauman, del progetto di razionalizzazione della modernità (ovvero del Giardino). Grumi di luci che brillano in corrispondenza delle metropoli e il resto immerso in una oscurità vasta e sinistra, dove strisciano immondi mostriciattoli e proliferano virus autoimmuni e non ancora classificati. Non è che in quel buio non arrivino internet o la televisione, tutt’altro, è proprio lì che i media agiscono in profondità, agitando paure profonde e svegliando istinti velenosi, che rilegittimano impulsi antisociali, giorno dopo giorno, anno dopo anno, finché basta un milionario balordo o un comico da strapazzo a raccogliere i frutti di quel lavorìo incessante. I cosiddetti “populismi” sono forse pensabili senza l’azione dei media, non importa a chi appartengano? Né basta spegnere la televisione per sentirsi la coscienza a posto. Insomma possiamo finalmente smetterla di pensare: sì, è vero, non tutti hanno ancora appreso i Valori che rispolveriamo dopo ogni strage e che fanno così appetibile il nostro stile di vita. Ci sono delle sacche arretrate, certo, però presto, con un po’ di pazienza, vedrete che arriveremo anche lì, da bravi giardinieri, nelle zone oscure dove per il momento sunt leones. Nient’affatto, è proprio grazie ai nostri stili di vita che i leones non sono mai stati così in forma. Quando Bauman afferma che, non essendosi realizzato il progetto della Modernità «l’età segnata dai valori di autonomia personale e razionalità sociale non può finire»14, e che di conseguenza la funzione degli intellettuali ha senso proprio e tuttora nel portare a compimento quel progetto, il “non ancora” che soggiace al suo discorso deve qui e ora confrontarsi con la brutale, spietata offensiva della nuova fase, che considera appunto la Modernità come una deviazione, una parentesi nella perenne guerra darwiniana che definisce l’essenza ne varietur della società.
Tornando ai media, allora, uno che sospetto essere un intellettuale e non solo un autore di racconti, George Saunders, si chiedeva di recente: «Chi dirige i media? Chi sono i media? I migliori e più brillanti tra noi: i più colti, ambiziosi e dotati, che escono di casa ed entrano nelle migliori università e poi ottengono i migliori stage e vanno a lavorare nelle redazioni di tutto il paese, per informarci». Aggiungeva, poi, di temere che quei tipi così smart «accettino gli incarichi fregandosene altamente delle idee politiche del loro datore di lavoro. Ci tengono di più a sapere che posto occupa in Paradiso, il suddetto datore di lavoro. La rete nazionale è più vicina a Dio della rete locale. La grande audience guarda dall’alto in basso la piccola audience. L’ultimo programma premiato dagli ascolti comincia a decollare, lasciando di stucco gli angeli che non volano più perché lavorano per gli sfigati»15. Al tempo stesso, Saunders avvertiva che «non c’è nessun complotto in corso […], nessuna malafede, nessuna perfida Eminenza Grigia: solo un gruppo di persone provenienti da ottime università, che realizzano il loro sogno e si vergognano un po’ del servizio sulla cacca di cane proprio mentre si assicurano che la messa in onda sia puntuale e tecnicamente impeccabile». Quindi alla domanda «Come può un prodotto così nocivo nascere da persone così in gamba?», Saunders rispondeva: «Probabilmente c’entra la voglia di sopravvivere: ogni rotellina dell’ingranaggio fa quello che deve fare per non tornarsene al paesello con la coda tra le gambe, rispettando i vigenti limiti di tempo e redditività e rimandando il suo “vero” lavoro a quando avrà accumulato i soldi per andarsene in pensione, o otterrà un incarico che gli permetta di fare ciò che ama»16.
Qui la frase sulla «rotellina dell’ingranaggio» riporta tristemente il pensiero al libro di Bauman intitolato Modernità e olocausto, che è il suo più bello e che continua a parlare (purtroppo per noi) al nostro presente17, alla nostra complice indifferenza. Ma vale la pena soffermarsi su un aspetto specifico dell’attualità evocato da Saunders, quello relativo all’università e alla sua funzione sociale. Non si dimentichi che l’elezione di The Donald ha avuto luogo nella nazione che vanta le più celebrate e costose università del mondo e che si pensava, un tempo, che tra gli scopi di tali istituzioni vi fosse quello di formare una dignitosa classe dirigente, non solo le persone di cui parla Saunders e che svolgono peraltro il loro ruolo così efficacemente nei distretti del potere mediatico. Non ci sarà qualcosa di marcio, da qualche parte, e forse proprio nell’ingranaggio?
5. La Fortezza
In proposito può tornare utile un libro recente intitolato La mediocrazia il cui autore, Alain Deneault18, analizza sotto il profilo sociologico il funzionamento degli atenei nella fase liberista. Non si tratta del solito discorso sul rapporto tra università e capitali privati, né sulle palesi ipocrisie della meritocrazia o sulla mutazione genetica della ricerca e della didattica19. A un certo punto di Mediocrazia Deneault riprende, invece, lo studio di un docente del King’s College di Londra, che in How Academia Resembles a Drug Gang «stabilisce un legame tra la sproporzione degli introiti nelle reti del narcotraffico – gli spacciatori di strada spesso guadagnano un “salario” da fame mentre i capibanda arraffano quasi tutta la posta – e i sistemi di retribuzione che prevalgono all’interno dell’istituzione universitaria»20.
Crudo paragone: ma non senza implicazioni da meditare. Alla domanda posta dal sociologo: «come mai i piccoli spacciatori accettano di lavorare per una ricompensa a volte inferiore al salario minimo?», la risposta di Deneault è infatti la seguente: «perché, come all’università, la prospettiva della ricchezza futura, ben più del reddito effettivo e delle condizioni di lavoro, è il principale motore che spinge le persone a restare nell’organizzazione: gli spacciatori di basso livello rinunciano al guadagno attuale per una (incerta) ricchezza futura […] Sono pronti a “diventare ricchi o morire provandoci”»21. Ora, questa spiegazione mi pare possa valere, in realtà, per molte situazioni analoghe, anzi forse per la maggior parte dei casi che deve affrontare un giovane alle prese con le difficoltà di entrare, ai nostri giorni, nel mondo del lavoro. Per chi è sottoposto a questo genere di ricatto, la speranza è sempre quanto basta a «generare il numero di pretendenti richiesti per garantire un ricambio costante»; e la cosa più grave, forse, è che ormai non avvertiamo nemmeno più il ricatto che, della speranza, si serve per mandare avanti il Business e il profitto di pochi, come fosse una Legge di Natura.
Ed è proprio qui il punto. Restando al nostro autore e al suo paragone alquanto “politicamente scorretto”: «Come i signori della droga, – scrive – le direzioni universitarie – titolari di cattedre e membri della corporazione – non sentono affatto la necessità di distribuire meglio la manna della quale sono beneficiari», sicché, in conclusione:
Coloro che si sono introdotti all’interno delle strutture [quelle che il sociologo chiama la «Fortezza»] godono di tutti i vantaggi, lasciando agli altri soltanto la speranza di potersi a loro volta aggregare. A costo di guadagnare, nell’attesa, novecento dollari al mese, ovvero più o meno la somma che si mettono in tasca i piccoli spacciatori… proprio come i ricercatori lasciati in panchina. I ricercatori precari, rimasti esclusi, accumulano piccoli contratti dopo angosciosi giri a vuoto, e questo accade in un momento cruciale della loro vita, in cui dovrebbero piuttosto augurarsi di poter proseguire le loro ricerche e di poter crescere dei figli.22
La Fortezza, ecco un’altra metafora da tenere a mente e da leggere in stretta relazione a quella del Giardino. Rispetto ai fondamenti ed editti della Fortezza, scritti o taciuti, siamo chiamati a prendere posizione non astrattamente, bensì nei fatti. Il paradigma della metafora è quello dell’esclusione e del conseguente trapasso dell’altro in nemico, in minaccia da cui difendersi, con la concomitante e implicita rilegittimazione della guerra, che di quell’orizzonte storico e semantico è parte integrante e anzi strutturale. Ne abbiamo vaga coscienza, ma non sappiamo cosa farne – e i populisti alzano la voce, impongono il loro ordine del giorno… Qui di nuovo entrano in gioco, decisivamente, i media, il cui radicale ripensamento, pertanto, non può esser più rimosso o rinviato, ma se la metafora può servire a evocare il nucleo di violenza che appartiene al nostro mondo, al tempo stesso ci pone dinanzi il vero terreno, geografico e politico, che oggi può dar senso a un’azione intellettuale degna di quegli antenati i cui nomi ricorrono nei libri che ho citato sinora (da Weil a Benjamin, da Anders a Saïd, da Adorno a Arendt, Bauman incluso) che hanno nella loro genealogia un tratto non conciliato né rassegnato. L’Europa: questa è la sede (hic sunt leones) e questo il momento. Il ricatto a cui sono sottoposti i giovani ricercatori è lo stesso che muove – certo in situazioni ben più drammatiche e incalzanti – i fuggitivi che affollano i barconi del Mediterraneo, o si accalcano lungo i fili spinati della nostra Fortezza, anche se loro non cercano la ricchezza, ma solo la salvezza e qualche futuro per i loro figli. Anche loro, disposti a “morire provandoci”.
Non so quindi se i modelli d’intellettuale additati nel finale de Il destino dell’intellettuale23, Bertolt Brecht e Oscar Wilde, con la miscela di utopia e dandysmo che vi è descritta e la capacità di affrontare il “rischio” a cui quei due si esposero (come del resto lo stesso Pasolini, riproposto da Montanari) possano farci davvero da guide nell’impresa di far cessare il ricatto, di attaccare la Fortezza salvando e rinnovando gli ideali del Giardino. Non è, forse, di modelli “prestigiosi”, per usare l’espressione di Genovese, che c’è oggi bisogno (o non soltanto), quanto piuttosto di un lavoro di squadra che colleghi ambiti, competenze e genealogie diverse ma convergenti contro il ricatto, recuperando quello che del passato è stato posto in disarmo o in dimenticanza e che, come ci ricordano Genovese e Traverso, costituisce una tradizione sempre interrotta e rimossa, di cui però dobbiamo tornare a occuparci, senza astratte utopie o confortanti malinconie. In questo senso più ricca di futuro, sia a livello di metodo che di contenuti, per le valenze concrete con cui delinea il rapporto tra utopia e realtà, e proprio per la dimensione collettiva che implica, mi sembra oggi la lotta di Franco Basaglia richiamata da Genovese nell’Appendice del suo libro: «Praticando la realtà dell’utopia – scrive Genovese – Basaglia ha reso palese una volta per tutte che l’utopia è possibile, è a un palmo di mano da noi purché sappia farsi concreta»24. Sottoscrivo tutto e sottolineo il noi.
1 La fine degli intellettuali. Conversazioni con Gilles Deleuze, introduzione di R. Peverelli, Milano, Medusa, 2017.
2 Z. Bauman, Legislator and Interpreters, On modernity, post-modernity and intellectuals, Cambridge, Polity Press, 1987.
3 Id., La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
4 H. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda, Milano, Edizioni di Comunità, 19831, p. 483.
5 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali cit., p. 65.
6 Ivi, p. 82.
7 E. Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Roger Meyran, Verona, Ombre Corte, 2013.
8 R. Genovese, Il destino dell’intellettuale, Roma, manifestolibri, 2013.
9 Tra i tanti motivi del libro, ricordo la critica della categoria dei “diritti umani”. Non meno stimolante, in questa cornice, il recente Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Milano, Feltrinelli, 2016.
10 Di Traverso si veda per questo, in particolare, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Milano, Feltrinelli, 2016, che molto spazio dedica anche a Walter Benjamin.
11 E. Traverso, Malinconia di sinistra cit., p. 10.
12 R. Luperini, Per chiudere i conti, in Tramonto e resistenza della critica, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 8.
13 Cfr. F. Nicodemo, Disinformazia. La comunicazione al tempo dei social, Venezia, Marsilio, 2017.
14 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali cit., p. 217.
15 G. Saunders, L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza, a cura di C. Raimo, Roma, Minimum Fax, 2014, pp. 36-37.
16 Ivi, p. 37.
17 Z. Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992 [1989]. In tema d’indifferenza cfr.: http://lostraniero.net/qualcosa-di-enorme/
18 A. Deneault, La mediocrazia, Vicenza, Neri Pozza, 2016.
19 Da leggere in proposito il recente intervento di Giorgio Agamben: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-studenti
20 Ivi, pp. 73-74.
21 Ivi, p. 74.
22 Ibidem.
23 R. Genovese, Quasi una conclusione: Wilde e Brecht, in Il destino dell’intellettuale cit., pp. 96-103.
24 R. Genovese, Appendice. Rileggere Basaglia: dal tecnico del sapere pratico all’intellettuale specifico utopico, in Il destino dell’intellettuale cit., p. 113.