di Emiliano Ilardi
Ci sono sostanzialmente tre modi per intendere la secolarizzazione: come totale desacralizzazione della società; come riduzione del sacro alla dimensione privata; come assorbimento del sacro all’interno della sfera pubblica laica, per cui, come sosteneva Talcott Parsons (e in qualche modo anche Max Weber), la religione si integra nei simboli e nelle strutture della società moderna secolare (ad esempio in gran parte del diritto dei paesi occidentali, sono presenti valori cristiani). La potenza di tali derive aveva portato a credere che, prima o poi, le religioni avrebbero perso la loro dimensione autonoma, il loro spazio e, quindi, la loro capacità di influire e modellare la sfera pubblica. Se guardiamo a ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni tale processo sembra lontano dal realizzarsi e anzi, come scrive Rino Genovese in un precedente intervento su questo sito, oggi siamo probabilmente di fronte a “una vera e propria inversione della secolarizzazione”, a una sacralizzazione del secolare. Alcune religioni (non tutte) dimostrano cioè una straordinaria capacità di sopravvivenza e adattamento alle derive di un mondo che si va facendo sempre più consumista e tecnologico in cui, come ha affermato Manuel Castells, ogni elemento immateriale (perfino Dio) si materializza, si reifica, occupa una spazio, si fa bit.
In realtà questi tentativi di negoziazione con il “progresso” non sono nuovi: è almeno dal XVI secolo (se non prima) che, ad esempio, la religione cristiana cerca di inglobare dentro la dimensione del sacro le derive della modernità e della secolarizzazione. E lo ha fatto in due modi distinti: il protestantesimo attraverso l’ascesi intramondana, ossia sacralizzando le capacità produttive dell’individuo (il lavoro); il cattolicesimo attraverso la spettacolarizzazione di stampo gesuita della Chiesa stessa intesa come istituzione multiuso, che deve essere capace di diventare un contenitore suscettibile di assorbire al suo interno tutte le possibili differenze culturali o di stili di vita (il consumo) e dare loro un senso (si pensi al barocco sincretico dell’America Latina). Entrambi i modelli hanno essenzialmente due punti deboli. Il primo non può reggere alle potenti spinte dell’ethos consumistico che nel corso dei secoli ha velocemente sostituito la produzione come fonte di identità individuale; esso, per la sua natura effimera, è difficilmente riconducibile a Dio e alla salvezza ultramondana, come invece avveniva per la semplice accumulazione di ricchezza. Il secondo è troppo legato all’istituzione ecclesiastica, per cui se questa va in crisi, rischia di crollare tutto l’impianto religioso su cui si appoggia; d’altronde, come ha fatto notare Fabio Tarzia in un suo recente commento alle Lettere Provinciali di Pascal (La morale dei gesuiti, Roma, Manifestolibri, 2016), l’elezione al soglio ponficio di un gesuita come Papa Francesco è proprio l’estremo tentativo della Chiesa di salvare se stessa e quindi l’intero cattolicesimo che, senza un istituzione centralizzata, semplicemente non ha più senso e non può che dissolversi. È su questi due punti deboli che è cresciuta la secolarizzazione europea, prima nei paesi protestanti e negli ultimi anni anche in quelli cattolici.
Negli Stati Uniti tali processi di secolarizzazione, hanno riguardato solo alcuni aspetti della vita quotidiana, sono proceduti molto più lentamente e anzi, a partire dagli anni ’80 del XX secolo si sono bloccati. Il risultato è che oggi l’America rappresenta allo stesso tempo il paese dell’iperproduzione (o comunque quello dove i mezzi di produzione si rinnovano più velocemente), il paese dell’iperconsumo e il paese più religioso dell’Occidente, quello in cui Dio è più presente all’interno del dibattito pubblico (fatto che spesso indigna gli europei) e in cui la propria fede è ostentata in tutti i modi possibili. Le ragioni di questa eccezionalità sono tante e in buona parte sono state spiegate nel libro che ho scritto con Fabio Tarzia, Spazi (s)confinati (Roma, Manifestolibri, 2015), a cui rimando. In questo contesto mi limito a rimarcare come nel corso dei secoli il nucleo duro della religiosità americana si sia formato proprio attraverso uno straordinario compromesso tra la chiusura identitaria del puritanesimo tradizionale basato sulla produzione e il lavoro, e l’apertura ad ogni forma di ibridismo e spazialità alternativa tipica di un certo cattolicesimo soprattutto di stampo gesuita, e riconducibile al consumo. Su questo compromesso si è costruito lo straordinario successo delle Chiese evangeliche che, dagli Stati Uniti, stanno velocemente conquistando prima l’America Latina e negli ultimi anni l’Asia. Da una parte c’è un rapporto individuale e diretto con Dio, la possibilità cioè di interpretare liberamente le scritture, frutto della radice puritana ed essenziale per una soggettività iperindividualista, come quella contemporanea, costruita sul consumo e sui media. Dall’altra, rifunzionalizzando il pentimento e la confessione tipici del cattolicesimo (al contrario di quest’ultimo infatti la confessione evangelica deve avvenire pubblicamente), riescono ad offrire al peccatore una seconda possibilità di salvarsi attraverso la dottrina del born again, strappandolo così dalla rigida predestinazione puritana; una reversibilità dell’esperienza potenzialmente infinita, mutuata dalla cultura della frontiera, da sempre vista come luogo in cui ricominciare da capo e rifarsi una verginità, e perfettamente omogenea alle culture mediatiche-consumistiche attuali. Grazie a questi strumenti gli evangelici sono riusciti a conciliare la loro identità di minoranza impermeabile all’esterno e frutto della radice puritana con le derive della globalizzazione, e oggi hanno a disposizione forme di conversione assai più agevoli e seducenti per i potenziali credenti del XXI secolo che cercano Dio sullo smartphone o al centro commerciale.
Ciò su cui varrebbe la pena riflettere è se questo compromesso religioso americano sia semplicemente il frutto di un processo di adattamento-contrapposizione della dimensione del sacro alle potenti spinte secolarizzatrici del moderno, o sia piuttosto il fondamento, il vero motore di una versione della modernità tutta americana (come aveva a modo suo intuito Baudrillard), diversa da quella europea, che è stata capace di produrre un’ “utopia capitalistico-tecnologica” realizzata sotto il grande ombrello della religione. Se ciò fosse vero, allora il concetto di secolarizzazione (o di sua “inversione” per usare l’espressione di Genovese), riferito alla cultura americana, semplicemente non avrebbe senso.