di Fabio Tarzia
Il mondo globalizzato che oggi abitiamo, e che si definisce con termini ormai stereotipati quali individualista, digitalizzato, post-moderno, post-umano, ha lasciato sul campo di battaglia devastato un’unica, grande struttura ideologica e culturale in grado di costruire e mantenere identità collettive: quella religiosa. I grandi monoteismi appaiono ancora in piedi, mentre le possenti ideologie del passato, da quella umanistico-illuminista a quella marxista, sono entrate in crisi e in alcuni casi si sono praticamente dissolte.
La cosa non è irrilevante. I processi di globalizzazione, infatti, sin dai tempi dello spazio “omogeneizzato” dell’impero romano con cui ebbe a confrontarsi Paolo di Tarso, sono una decisiva opportunità per le religioni monoteiste in quanto ne favoriscono l’azione universalistica di diffusione ed espansione, azione che è il fulcro della loro esistenza e della loro tenuta identitaria.
In particolare per ciò che riguarda il cristianesimo, è durante la lunga fase che prende avvio nel Cinquecento e si concretizza con l’esplodere della rivoluzione industriale e la nascita del capitalismo e della modernità, che per la prima volta si affronta il nodo cruciale del rapporto con la materialità, con la “moneta”, con lo “sterco del demonio”, secondo la celebre definizione di Lutero. È in questi decenni ad esempio che il calvinismo sperimenta con successo la sublimazione del momento produttivo attraverso la sfera religiosa: il lavoro è reso finalmente “abitabile” a un numero relativamente diffuso di persone. Una volta predestinato l’uomo è lasciato libero di muoversi nel mondo, si mondanizza, avendone avuta legittimazione: non è più Dio che “lavora nel mondo” attraverso l’uomo “punito”, carcerato, ed espiante (come nel cattolicesimo), ma l’uomo che lavora liberamente per conto di Dio, avendone cioè ricevuto la delega, e presentando il libro dei conti alla fine del contratto.
Così ridefinito il cristianesimo risulta non soltanto lo strumento per sublimare il capitale, rendendolo accettabile, ma anche il sistema per adattare la religione cristiana, altrimenti obsoleta, a esistere nel nuovo mondo “capitalizzato”.
Ma la globalizzazione con cui ci confrontiamo oggi, è evidente, si dimostra completamente diversa e soprattutto più pericolosa per la tenuta religiosa: potentemente omologante e standardizzante, eppure allo stesso modo individualizzante e refrattaria rispetto ai possenti collanti “collettivi” precedenti, là dove l’elemento di discontinuità rispetto al passato assume il volto del motore potentissimo del consumo.
Verosimilmente è proprio questo il centro della questione: le strutture religiose monoteistiche, che si sono ritrovate di fronte allo spazio (dei flussi e dei luoghi) aperto del nuovo mondo, non possono perdere questa straordinaria opportunità di perpetuarsi, ma allo stesso tempo devono necessariamente ripensarsi per poter vivere dentro tale rivolgimento. A questa doppia sollecitazione esse devono oggi, e ancora di più nel futuro, il loro successo o la loro decadenza.
Secondo la ormai “classica” interpretazione di Colin Campbell esisterebbe un rapporto tra etica romantica e diffondersi dei consumi, tra sognatore romantico, che non può realizzare completamente il suo desiderio ma solo spostarlo sempre più avanti, e il consumatore. È probabile che tale idea proponesse sotterraneamente una sorta di mutua relazione tra il versante della produzione e quello del consumo, nella costruzione di una società equilibrata nella quale il primo polo presiederebbe alla gestione del collettivo e il secondo alla coltivazione di quello intimo e individuale. In tale situazione il sistema religioso avrebbe ancora una sua naturale ragion d’essere, curando allo stesso tempo la comunità con tutti i suoi legami, e la sfera della coscienza singola. In un tale assetto, un mercato in equilibrio che garantisca regole e stabilità sociale, rappresenta una piattaforma fondamentale per preparare la proiezione verso l’altro spazio-tempo.
Le visioni più recenti al contrario attribuiscono al concetto di consumo connotazioni di libertà estrema ed assoluta dunque conflittuale e non “integrabile”. L’interpretazione di Massimo Ilardi vede il consumo come portatore di caratteristiche veramente aliene e dunque oppositive rispetto ai sistemi religiosi monoteistici codificati. Tale interpretazione legge infatti il consumo come una struttura mentale:
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svincolata dal mondo della produzione e del lavoro, dunque conflittuale rispetto ad esso;
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individualista, edonistica, materialistica e antisociale, in cui il rapporto tra consumatore e prodotto non accetta mediazioni;
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permeata di libertà negativa, cioè non finalizzata a qualsivoglia progetto, ma semplicemente refrattaria a ogni tipo di impedimento;
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intesa come stato di necessità, piantato nel mondo, e mossa da uno “spirito” di soddisfacimento iterato e “tattico” del desiderio.
Come fanno i rigidi sistemi religiosi ad adattarsi o almeno a rapportarsi ad un mondo dominato da simili principi? In questo quadro soltanto le religioni che più di altre hanno elaborato l’idea dell’individuo in diretta relazione con Dio, senza rigide istituzioni di mediazione, sembrerebbero detenere la possibilità di sopravvivere ed espandersi. È inoltre ipotizzabile che le religioni più attrezzate siano quelle in grado di limitare, “essenzializzare” e formalizzare i divieti, evitando continue cadute nell’agone della coscienza e dell’analisi. Infine: se è vero che tutte le confessioni religiose monoteiste proiettano il soddisfacimento del desiderio nell’oltre-mondo, propugnando invece il sacrificio, la privazione e il controllo nel mondo presente, allora anche qui soltanto quelle religioni in grado di ritagliare spazi di autonomia (se non di effettiva libertà) mondani avranno un margine di garanzia di tenuta di lunga durata.
In altre parole, e in termini più generali, si può affermare che per struttura intrinseca i grandi monoteismi abbiano potenzialità diverse di risposta rispetto a questa immane trasformazione del mondo, e che paradossalmente siano i loro tratti fondativi, costitutivi e di tradizione a garantirne o meno la sopravvivenza.
Entrando un po’ di più nello specifico, ma limitandosi a fornire dei brevi cenni, il quadro potrebbe essere così tratteggiato.
L’ebraismo, costruito non per la propagazione ma per la conservazione, presenta regole e destini tutto sommato autonomi, in grado di garantirne l’esistenza. Il cristianesimo riformato (calvinismo ed evangelismo) contiene forti caratteri di potenziale resistenza ed espansione. L’islam, forse inaspettatamente, rappresenta la religione più predisposta al mondo del consumo. L’ipotesi è che il rispetto della ritualità essenziale del “culto” islamico (obbedienza ai cinque pilastri) garantisca il patto con Dio, lasciando poi libero l’individuo di muoversi nel mondo, e dunque anche di consumare (sebbene in maniera ridefinita e a volte attenuata). Va da sé che l’integralismo islamico risulti indirizzato proprio contro questa particolare predisposizione più generale dell’islam ad adattarsi al mondo occidentale del consumo, dunque non semplicemente contro quest’ultimo. Infine il cattolicesimo che, come religione basata su un centro-istituzione con funzioni mediatrici, legata a processi di analisi di coscienza profondi e spesso complessi, e con una visione per cui la vita terrena resta “episodio” e preparazione a quella ultraterrena e secondo la quale la vera realizzazione del desiderio è proiettata oltre l’umana esistenza, difficilmente potrà sostenere l’individualismo diretto, la velocità di desiderio e sua realizzazione, e la “edenizzazione” del mondo offerta dai debordanti processi consumistici.
Se queste che abbiamo appena delineato sono le potenzialità di adattamento da parte delle religioni monoteiste al mondo trasformato dal consumo, è possibile guardare la questione al contrario, cioè leggere tale monolitico assetto consumistico come in qualche modo condizionabile dai sistemi religiosi?
Il consumo è sicuramente il motore principale del mondo contemporaneo da un punto di vista antropologico, e come tale non credo che al momento i sistemi religiosi possano sostituirsi completamente ad esso, determinando altre “forme di vita” (o meglio: ciò avviene in alcune occasioni, ma in una situazione di minoranza, avviene cioè là dove insorgano fenomeni di integralismo e fondamentalismo religioso).
Credo invece che le religioni monoteistiche propriamente dette (e dunque non fondamentaliste), ognuna in diversa misura e secondo modi specifici, possano agire sull’apparente struttura granitica del consumo, e che siano in grado di limitarne l’essenza, gli effetti e la portata, e di determinarne caratterizzazioni e linguaggi diversi.
Forse la visione del consumo come libertà assoluta e stato di necessità (Ilardi) dovrebbe essere ridefinita. In altre parole il consumo potrebbe aver storicamente lavorato in maniera diversa sugli assetti sociali, ed aver subito di rimando una qualche forma di sviluppo e di trasformazione. La cosa non è irrilevante, visto che gli sviluppi storici non sono evolutivi e omogenei. Ne risulta che il mondo contemporaneo potrebbe essere letto come un mondo a diverse velocità e dunque a diversi stati e stadi di consumo (penso a tutto il continente africano, per esempio). È su queste diverse velocità, frutto di diversi percorsi culturali e identitari, che potrebbero influire i sistemi religiosi, fino a costruire soluzioni specifiche.
Prendendo a prestito i suggerimenti di Peter Berger, si può affermare che nel mondo contemporaneo, che non è semplicemente o esclusivamente secolarizzato o relativistico, ma pluralistico, le antiche religioni trovino un loro posto nel relazionarsi con i linguaggi del consumo, in alcuni casi eminentemente resistenziale, in altri più evidentemente interattivo e “dialogante”.