Con questo intervento ho intenzione di riprendere il confronto iniziato a novembre con il convegno sul Diritto alla città e di continuare i ragionamenti su come sia cambiato questo diritto e cosa significhi oggi, prendendo in considerazione delle situazioni concrete. Ho scelto di iniziare con Tor Pignattara, una delle periferie storiche di Roma descritta da Pasolini in Ragazzi di vita come «[…] una Shanghai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane» perché questo quartiere sta vivendo un’importante mutazione antropologica, a fronte di un paesaggio urbano tendenzialmente stabile, come da periferia romana.
Tor Pignattara continua a essere il borgo delle vie dell’Acqua Bullicante, della Marranella, della stessa Tor Pignattara, schiacciato tra il Pigneto e il Casilino e diviso in un “nord” (più cittadino) e un “sud” (più paesano) dalla via Casilina (sede dello storico trenino giallo Termini-Giardinetti che collega con la stazione Termini) e suddiviso da un pettine di strade e stradine, ortogonali alle tre vie principali, che si infilano tra i caseggiati per addentrarsi nella campagna sopravvissuta all’espansione edilizia e ancora, in parte, coltivata a orti e giardini (si tratta degli ex terreni dello SDO, il Sistema Direzionale Orientale progettato negli anni Sessanta e, come in molti altri casi, naufragato già al momento della sua ideazione).
A Tor Pignattara, dunque, ad essere cambiati sono gli abitanti. Da borgata rurale della prima migrazione italiana, è diventato un quartiere della migrazione straniera: qui abitano filippini, cinesi, rumeni, polacchi, peruviani, egiziani, marocchini, albanesi, bengalesi, che si sono insediati progressivamente a partire dagli anni Novanta, occupando il quartiere a zone e definendo delle microcittà interne riconoscibili dal tipo di negozi e di insegne, così come da un paio di locali su strada adibiti a moschee, e da un viavai di donne velate e genti in costumi tradizionali. Questo fa sì che a Tor Pignattara ci si trovi a camminare per le vie di una Banglatown romana o di un quartierino arabo semplicemente attraversando le strade, divenute confini informali di queste nuove città interne.
Ma il fatto più significativo di questa mutazione antropologica – che merita di essere sottolineato – è come l’arrivo degli immigrati, causa per un verso di conflitti sfociati in episodi di intolleranza e violenza razziale, ahimè anche gravi, abbia permesso, per un altro, il rilancio demografico ed economico del quartiere che ha consentito di arrestare il processo di “desertificazione” dovuto all’invecchiamento della popolazione locale e all’abbandono del quartiere da parte dei giovani. Una ricerca condotta qualche anno fa dall’università di Roma Tre (Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, a cura di F. Pompeo, Meti Edizioni, Roma 2011) ha infatti evidenziato come l’insediamento delle comunità degli immigrati sia stato «l’unico vero antidoto alla desertificazione della zona». Si è venuto a determinare «un quadro a due velocità, con una componente italiana demograficamente declinante cui si contrappone un’altra straniera in espansione […]» caratterizzato da reti familiari estese che negli anni sono cresciute di numero, con una prima generazione di bambini nati in Italia che frequentano le scuole e si configurano come i nuovi “radicati” nel quartiere, pur senza essere cittadini italiani visto che manca ancora lo ius soli.
In sostanza, il carattere multietnico della Torpignattara post-pasoliniana ha consentito una rivalutazione del quartiere che, purtroppo – è bene ricordarlo –, è stata gestita dagli speculatori che, fiutato l’affare, si sono accaparrati il mercato degli affitti in nero, innescando una situazione paradossale però molto redditizia: da una parte, gli stranieri sono stati presi per la gola e costretti a pagare cifre esorbitanti per vivere in condizioni precarie e sovraffollate (il costo dell’affitto è “a materasso”), dall’altro, la loro presenza ha abbassato il valore degli immobili, richiamando negli ultimi anni giovani italiani che sono tornati a vivere a Tor Pignattara grazie ai prezzi abbordabili delle case e la relativa vicinanza del quartiere al centro della città.
Da questo punto di vista, se come dice Lefebvre l’urbano è «la proiezione della società sul territorio», l’immagine contemporanea di Tor Pignattara può essere interpretata come la risultante delle dinamiche sociali ed economiche che agiscono sul territorio e disegnano una mappa del tutto diversa da quella ufficiale, che non parte da un cambiamento pianificato ma dai modi di dislocarsi delle genti e di agire sull’habitat in rapporto alle necessità di sopravvivenza. Questa mappa non solo descrive un diverso significato di cittadinanza ma anche una rimodulazione del Diritto alla città. Nonostante l’espansione territoriale urbana presupponga un declino del concetto di periferia, soprattutto per quei quartieri che nel tempo si sono avvicinati al centro, anche grazie a un incremento della mobilità pubblica e privata, la carenza di qualità dell’habitat (mancanza di servizi, scarsità di spazi pubblici, pericolosità delle strade) continua ad essere espressione di una segregazione, sinonimo di periferia.
Ciò che si respira quando si va a Tor Pignattara è la monofunzionalità del quartiere che non offre spazi pubblici ad eccezione del parco Sangalli (è sintomatico che la piazza del quartiere sia il parcheggio dell’Eurospin) né tanto meno cinema o teatri, nonostante Tor Pignattara sia stata, insieme al Pigneto, set cinematografico di importanti film del neorealismo come Roma città aperta e vantasse negli anni Cinquanta diverse sale cinematografiche, tra cui l’Impero e i Due Allori, oggi chiuse o trasformate in sale bingo. Sebbene il carattere multietnico presupponga una gamma diversificata di spazi pubblici e servizi, la carenza di iniziative (a parte la promozione dei murales sulle facciate cieche dei palazzi, indice di una certa volontà di rigenerazione anche culturale del patrimonio edilizio) rivela la contrapposizione tra chi governa la città e chi la abita.
Considerando dunque il Diritto alla città come una sintesi dei rapporti tra città, società e progetto, scendere sul terreno concreto di un quartiere della periferia romana qual è Tor Pignattara vuol dire tracciare un percorso di ragionamento basato sulla mappatura delle problematiche reali per definire il campo della domanda da affrontare anche con gli strumenti e le categorie dell’architettura, a partire dal presupposto che il progetto della città non è un’azione di pianificazione imposta dall’alto, ma un processo condiviso di trasformazione e valorizzazione del territorio abitato. Un grande equivoco accompagna infatti i ragionamenti sul Diritto alla città: ritenere che esso sia il rifiuto del progetto, specialmente del progetto dell’architettura, in nome di una visione che ritiene l’architettura un’imposizione che risponde a un interesse particolare e non un’impresa collettiva. Purtroppo, a causa di questa immagine diffusa, non viene resa giustizia al lavoro, positivo, che può fare l’architettura per il bene della città. Eppure la politica è oggi, forse ancora più di ieri, politica della città a fronte del fatto che la città (estesa, smisurata, mostruosa, ecc.) è il campo di vita e di azione di una collettività di soggetti abitanti a vario titolo di cittadinanza. La domanda a questo punto diventa: a chi ci si rivolge quando si progetta l’architettura della città? In altri termini, come declinare il Diritto alla città in una condizione urbana così radicalmente trasformata e con un significato di cittadinanza così articolato?
A fronte di questi ragionamenti e ritenendo che l’architettura sia un valore aggiunto, con il mio gruppo di lavoro (Roberta Gironi, Deborah Navarra, Lea Stazi) e gli studenti del Laboratorio di Progettazione Architettonica 2 dell’università Sapienza, stiamo lavorando al progetto di una casa di Tor Pignattara sull’esempio torinese delle case di quartiere ma anche di una infrastruttura urbana come il Sesc-Pompéia di São Paulo per proporre un servizio pubblico configurato come luogo di incontro e di attività multiculturale e intergenerazionale, basato sul coinvolgimento e la partecipazione degli abitanti. Questo progetto, che stiamo sperimentando in tre aree libere ricollegate tra loro da una rete di percorsi pedonali e ciclabili di media distanza tra le strade e i parchi della zona, ha l’ambizione di proporre un programma di uso pubblico a misura del quartiere, ma anche di ricostruire lo storytelling di un territorio che nel tempo ha conosciuto storie diverse, dalle catacombe fino alla resistenza contro i nazi-fascisti durante l’occupazione – di cui il parco Sangalli, dedicato al giovane gappista ucciso dai tedeschi è un esempio – fino ai luoghi delle scenografie pasoliniane. La casa di Tor Pignattara diventa così un modo per aumentare il capitale spaziale del quartiere.