di Rino Genovese
Il novantanove per cento di quello che facciamo, o tentiamo di fare, è critica della cultura; l’uno per cento tutt’al più, se ci riusciamo, è critica sociale. Un’affermazione così netta richiede un certo numero di chiarimenti e di definizioni: che cos’è la critica della cultura? che cos’è la critica sociale? in che rapporto stanno tra loro? in che senso si può dire che quando si profila l’una non ci sia più l’altra? e così via…
Inizio allora con un breve elenco degli usi possibili del termine “cultura” come compare nell’espressione “critica della cultura”. Dentro di essa ricadono:
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la cosiddetta alta cultura associata alla nozione di umanesimo (cioè più spesso umanistica che tecnico-scientifica, secondo la vecchia e sommaria distinzione tra le “due culture”), la quale fino a un certo punto nel Novecento è stata fatta coincidere con la civiltà in generale, ma che in realtà, all’interno della modernità artistica e letteraria con le sue varie sperimentazioni, aveva già conosciuto la tendenza a una perdita di confini nei confronti della cultura di derivazione popolare o proveniente dalla produzione in serie (la cultura cosiddetta bassa);
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i prodotti culturali correnti, che possono essere opere vere e proprie o elementi immessi nel mercato con un effetto d’intrattenimento, al fine di ottenerne un utile economico, da parte delle agenzie dell’estetizzazione diffusa (televisioni, case cinematografiche, case di moda, gallerie d’arte, musei, etc.): nei confronti sia delle prime sia dei secondi si esercita un’analisi critica intesa come controllo riflessivo sul mi piace / non mi piace, schema binario tipico della comunicazione intorno ai giudizi di gusto elementari;
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le culture al plurale, in un senso antropologico, nella loro varietà e diversità: facendone la critica, quando è il caso, si è sempre alle prese con il pericolo di una sorta di imperialismo culturale involontario se non si tiene sotto controllo autocritico la tradizione culturale a partire dalla quale si interviene, per noi quella occidentale moderna.
Ora, tutto ciò che ha a che fare con la critica della cultura avviene nel campo della disputa. Con questo termine bisogna intendere un’incessante comunicazione sociale, tenuta perennemente accesa dai mass media, oggi anche mediante la rete, che avrebbe le sue sedi tradizionalmente deputate nelle istituzioni di disputa – come la critica letteraria o la critica d’arte –, ma che di continuo ne deborda pulsando quasi come la vita stessa. Non c’è nulla che possa veramente contenere la disputa, che tuttavia, pur nella sua anarchia fondamentale, ha i propri vincoli (non regole ma vincoli) raffigurabili come schemi binari. Uno l’ho già evocato sopra: è il mi piace / non mi piace, ineliminabile da qualsiasi comunicazione in quanto esprime la forma più semplice del giudizio di gusto. All’uscita da un teatro o da un cinema è il primo aspetto intorno a cui ci si interroga o si è interrogati: ti è piaciuto o non ti è piaciuto? Soltanto a un grado maggiore di generalizzazione riflessiva, in collegamento con la tradizione delle arti (anche soltanto per escludere che il filmetto mal confezionato possa farne parte), si mobilita la coppia bello/brutto, di cui quella mi piace / non mi piace appare una misera riduzione. Ciò che le agenzie dell’estetizzazione suggeriscono, per non dire impongono, è sostanzialmente di attenersi nella ricezione a un momento del tutto immediato, espresso dalla coppia mi piace / non mi piace, evitando di passare a un giudizio di gusto relativamente più mediato come bello/brutto. Da notare, qui, la differenza rispetto al classico concetto di industria culturale (meglio, di industria della cultura): in gioco non è tanto il momento della produzione quanto quello della fruizione. In altre parole, è secondario che una determinata opera sia qualcosa di fabbricato per il mercato culturale da un’organizzazione qualsiasi: decisivo diventa il fatto che, grazie alla non innocente pervasività della coppia mi piace / non mi piace, quasi nessuno riesca più a raccapezzarsi nella ricezione, l’opera di qualità diventando essa stessa un indiscernibile estetico, qualcosa che si perde nella nebbia. Se la teoria dell’industria della cultura poneva l’accento sulla forma merce assunta dall’opera letteraria o artistica, lo spostamento proposto verte sul processo comunicativo entro cui l’opera si colloca, con lo sguardo mirato sul ricevente diventato semplice fruitore. Per la critica della cultura è un mutamento di paradigma teorico.
Un’altra coppia fondamentale è data dall’alternativa vecchio/nuovo: si tratta in gran parte di una riduzione di ciò che, più appropriatamente, si esprimerebbe nei termini di pensato/impensato. Ciò che secondo un’esigenza indotta di mutevolezza meccanica e ripetitiva appare vecchio, può in effetti essere originale e impensato; viceversa, il nuovo può consistere in una rifrittura piuttosto stantia del passato. Sotto le strategie di riduzione e irreggimentazione dello schema binario più sdrucciolevole e problematico che ci sia – appunto pensato/impensato – si cela un’operazione sottile compiuta dalle agenzie dell’estetizzazione, che consiste nel cambiare di segno alla esperienza della moda teorizzata a suo tempo in maniera dialettica da Walter Benjamin. Una vera e propria operazione di potere – un potere acefalo in un’accezione foucaultiana – che attraverso l’ “obsolescenza programmata” tende non soltanto a costituire delle incessanti novità in senso merceologico, ma a evitare l’uso politico di quella riattivazione del passato in cui, almeno in una certa misura, consiste il moderno. Si potrebbe addirittura sostenere che la moda oggi, nel suo significato radicale, sia riuscita a evitare di farsi strappare il pungiglione soltanto nell’islamismo – e però impastandosi con la religione e con l’orgoglio di una forte ripresa dell’identità culturale per sopravvivere.
In una prospettiva evidentemente diversa, all’interno di quello che chiamo un illuminismo autocritico, la formula da opporre per una critica della cultura a trecentossessanta gradi (cioè sia nei confronti della propria, sia eventualmente, con la cautela sopra menzionata, nei confronti di ogni cultura che voglia imporsi come totalizzante) è la seguente: disputa aperta e consapevole in un’ibridazione dei codici comunicativi grazie all’intreccio costante degli schemi binari. Che cosa significa? In che modo la critica della cultura può giovarsi di una comunicazione ibridata?
Un piccolo passo indietro può servire a chiarire la cosa. Nel Trattato dei vincoli (Cronopio, Napoli, 2009, p. 244) ho cercato di distinguere così le principali aree disciplinari della cultura occidentale moderna:
arte: bello/brutto-pensato/impensato-vero/falso;
scienza: vero/falso-pensato/impensato-bello/brutto;
filosofia: pensato/impensato-vero/falso-bello/brutto.
Solo utilizzando insieme, nei differenti ordini di priorità, gli schemi della comunicazione è possibile far funzionare la comunicazione sociale di volta in volta come comunicazione artistica, scientifica o filosofica. Però una codificazione del genere è quella prevalente (non esclusiva) nella cultura occidentale moderna. Un intreccio che releghi all’ultimo posto, poniamo, la coppia vero/falso, in una sequenza pensato/impensato-bello/brutto-vero/falso, sarebbe quella della religione che, nell’autorappresentazione iperilluministica moderna (si pensi al discorso di Max Weber sulla secolarizzazione e il disincantamento del mondo), avrebbe dovuto pressoché sparire nel corso del ventesimo secolo. Ci ritroviamo, al contrario, nel ventunesimo con la ripresa delle religioni a livello planetario.
Ecco allora i due significati dell’ibridazione degli schemi binari. Il primo consiste nel mostrare come siano labili i confini e come, pur ponendosi in se stesse come vincoli (nel senso che non se ne può prescindere), le forme della comunicazione sociale siano sfuggenti, facce differenti ma interscambiabili (una comunicazione scientifica può facilmente scivolare in una filosofica, e questa in una di tipo artistico). Il secondo significato attiene più strettamente, invece, alla questione dell’ibridazione culturale: si poteva ritenere che le religioni avessero sempre meno voce in capitolo a causa di una razionalizzazione della vita sociale dispiegata in tutti i suoi aspetti, ma ciò non è avvenuto e, conseguentemente, nel mondo che sarebbe dovuto essere illuminato ci sono vasti ambiti di comunicazione sociale entro cui del vero (o rispettivamente del falso) non ne è più niente, mentre l’impensato viene pericolosamente mescolato con il bello in un’ibridazione estetica extrartistica. I fanatismi odierni cancellano tendenzialmente la coppia vero/falso in tutte le sue forme, riproponendo una dedifferenziazione delle sfere sociali sotto il segno della religione. Le ricadute non sono prive di conseguenze all’interno della stessa cultura occidentale moderna, che si trova sospinta – dalla inevitabile ibridazione con ciò che per lei sarebbe soltanto un passato remoto che non passa – a prendere atto della propria condizione di cultura particolare tra altre.
Nella visione che propongo l’ibridazione è al tempo stesso un destino in cui s’incappa e una chance da cogliere per la critica della cultura (e delle culture). È questa la dimensione che, come dicevo all’inizio, definisce la nostra attività al novantanove per cento. Siamo critici della cultura se stiamo dentro questa ibridazione cercando in un certo senso di approfondirla mediante un rimescolamento dei codici e il ricorso a un intreccio di schemi comunicativi, che consentano di porre in discussione le riduzioni e le chiusure della comunicazione da qualsiasi parte provengano – sia dall’antilluminismo oggettivo (come lo avrebbe chiamato Adorno) promosso dalle agenzie dell’estetizzazione diffusa, sia da quei neotradizionalismi arcaicizzanti che, in falsa opposizione a quelle, pretendono di regolare autoritariamente la vita degli esseri umani.
Di tanto in tanto, tuttavia, si apre la possibilità di qualcosa di diverso: si entra in quell’uno per cento in cui si profila una critica sociale vera e propria. Mi riferisco ai numerosi, sebbene disparati, movimenti di protesta contro l’esistente che possono nascere, e in effetti sono nati negli ultimi anni, a Occidente come a Oriente. Per un critico, il referente all’interno di un conflitto sociale può essere anche soltanto ipotetico (lo è stato, per esempio, nel caso dell’impetuoso movimento egiziano del 2011, sfociato nella successiva restaurazione di un regime militare quasi come male minore). Oppure – per accennare a qualcosa in scala minore ma più vicino a noi – la contestazione di un uso privatistico dei cosiddetti beni culturali e ambientali, ridefiniti come “beni comuni”, è un esempio di cosa possa significare il passaggio, con un punto di riferimento concreto, dalla critica della cultura a una critica sociale. Il che può esprimersi anche in un’analisi dei limiti in cui una determinata prospettiva di conflitto sociale eventualmente s’imbatte, o nella sottolineatura di come ciascuna lotta abbia da tenere presente il momento del consenso intorno a essa, di come siano indispensabili procedure democratiche nella costruzione di tale consenso, e così via. Tutto ciò ha come referente ultimo – o focus imaginarius – una linea di fuga utopica, che non intende, e neppure ovviamente potrebbe, mettere un cappello su ciò che avverrà in futuro, ma che vorrebbe indicare oggi come potrebbero andare le cose se un conflitto sociale, nella sua autonomia, intraprendesse una strada anziché un’altra. Sono i momenti magici della critica della cultura quelli in cui si stabilisce un’interazione tra il discorso critico e un movimento sociale: ciò che toccò in sorte a Marcuse nel Sessantotto. È però vero che a quel tempo erano presenti dei presupposti ideologici di massa – il marxismo, nelle sue varie versioni – che in larga parte del mondo riuscivano a tenere insieme movimenti tra loro eterogenei. Questa benedizione – lo dico con ironia – non esiste più. Ma ciò significa soltanto che è diventato molto più difficile il passaggio da una critica della cultura alla critica sociale, non che la sua possibilità sia del tutto scomparsa dall’orizzonte.